Tra tossine e veleni

L’autunno, è risaputo, è la stagione ideale per la fruttificazione fungina; in questo periodo, stante le particolari e favorevoli condizioni atmosferiche caratterizzate dalle abbondanti piogge e dalle temperature ancora elevate, numerose sono le specie fungine che, singolarmente, in forma gregaria, cespitosa, in filari, in cerchio o a zig zag, fanno la loro apparizione nei boschi, confondendosi, con le loro caratteristiche forme ed i loro stupendi colori, tra i fiori e la vegetazione del sottobosco, attirando l’attenzione “mangereccia” dei numerosi raccoglitori-micofagi che si riversano nei boschi alla loro ricerca.

Non dobbiamo dimenticare, però, che i funghi, per la loro particolare natura, contengono sostanze tossiche in misura più o meno maggiore a seconda delle varie specie, assumendo, per alcune specie in particolare, la consistenza di veri e propri veleni che possono causare, all’essere umano, effetti irreversibili con danni di notevole entità.

Ricordiamo, senza andare molto indietro nel tempo, che la stagione autunnale 2012 fu, in Italia, caratterizzata da numerosi casi di intossicazioni da funghi nei quali, purtroppo, restarono coinvolti anche bambini; diverse furono le morti registrate ed i casi di trapianto di organo. Nel 2014, nella regione Calabria, si ripetono casi di intossicazione da funghi che interessano famiglie intere: muore un imprenditore di 43 anni e tre familiari in gravi condizioni a Corigliano Calabro (CS) (Il quotidiano del Sud 20.10.2014); a Modena muore un anziano per avvelenamento da Amanita phalloides (La Gazzetta di Modena 15.8.2014).

Amanita phalloides
Amanita phalloides

L’autunno 2015 conferma la regola: a Torino (11.10.2015), ospedale “Le Molinette” un muratore rumeno di 54 anni viene sottoposto a trapianto di fegato per avvelenamento da Amanita phalloides e, il giorno successivo, come pubblicato dal quotidiano torinese “La Stampa” ben sette persone appartenenti allo stesso nucleo familiare, tra le quali una bambina di sette anni, vengono ricoverate presso lo stesso ospedale per intossicazione da funghi: responsabile, come accertato, Entoloma sinuatum (ex Entoloma lividum); ed ancora, come riportato dal quotidiano “La Stampa” di Novara (17.11.2015) due coniugi muoiono per avvelenamento da Amanita phalloides.

Entoloma sinuatum
Entoloma sinuatum

Quanto sopra riportato ci spinge a proporre una nuova “Riflessione Micologica” che, ovviamente, come le precedenti, vuole avere solo carattere informativo al fine di fornire, ai lettori del Magazine che gentilmente ospita la nostra rubrica, le nozioni basilari necessarie ad una conoscenza generica sul “Regno dei Funghi” e sui pericoli connessi al consumo dei funghi stessi.

La micotossicologia è quella branca della tossicologia che si occupa dello studio delle tossine contenute nelle diverse specie fungine, della sintomatologia conseguente alla loro assunzione e della terapia necessaria da seguire nei casi di intossicazione. Si tratta di una scienza ancora giovane che, in ogni caso, ha consentito di pervenire a conoscenze scientifiche di notevole importanza e valore.

 

Le Tossine:

(sostanze chimiche più o meno tossiche prodotte da un organismo animale, vegetale o microbico, dannose per l’organismo umano – nel caso dei funghi si parla di micotossine) i funghi, come già detto, a seconda delle varie specie di appartenenza, contengono, in misura più o meno elevata, elementi tossici detti “micotossine” o, più semplicemente, come continueremo a chiamarle nel corso della presente “Riflessione”, tossine che, a seconda della loro reazione al calore, vengono diversificate in:

Boletus luridus
Boletus luridus

Termolabili:

(eliminabili con il calore) quando la struttura chimica delle tossine può essere modifica con il calore. Portando i funghi ad una temperatura di circa 70-80 gradi centigradi per un tempo prolungato, circa 20-30 minuti, le tossine in essi contenute modificano la loro struttura chimica divenendo prive di tossicità e inoffensive per l’organismo umano. Ne consegue che alcune specie di funghi, ritenute tossiche da crude, possono essere regolarmente consumate dopo adeguata cottura (Boletus luridus; B. erytropus, Amanita crocea, A. vaginata…). 

E’ opportuno, in ogni caso, non consumare mai funghi poco cotti o crudi, anche se la loro commestibilità é certa e, per quei funghi ritenuti ottimi da crudi (Amanita caesarea, Boletus edulis, Russula vesca…) limitarne l’assunzione a piccole quantità. E’ preferibile, in ogni caso, evitare cotture alla griglia, alla piastra o fritture in quanto tali sistemi non garantiscono una corretta cottura della parte interna del fungo.

Amanita vaginata
Amanita vaginata

Termostabili-solubili:

(eliminabili con ebollizione) quando le tossine contenute in alcune specie fungine possono essere eliminate sottoponendo il prodotto a bollitura. Si tratta di tossine termostabili ma solubili ovvero che si liberano nell’acqua a temperatura di ebollizione. E’ consigliabile effettuare la bollitura con pentola scoperchiata che consente l’eliminazione di parte dell’acqua che, successivamente, deve essere totalmente eliminata, procedendo poi al completamento della cottura con i sistemi tradizionali e l’aggiunta di eventuali condimenti. Esempio tipico: Armillaria mellea, conosciuto come “Chiodino”, fungo particolarmente ricercato e consumato che, purtroppo, in Italia, è al primo posto nella classifica dei funghi responsabili di ricoveri ospedalieri.

Termostabili: (non eliminabili) quando la struttura chimica delle tossine è resistente a qualunque tipo di trattamento e le stesse mantengono la propria tossicità anche se sottoposti a trattamento termico come cottura prolungata o bollitura. Altri trattamenti artificiosi quali l’essiccazione, la salamoia, il passaggio in aceto, olio o altro, non producono alcun effetto sulle tossine che continuano a mantenere inalterata la loro tossicità. Si tratta quindi di trattamenti empirici il cui uso si perde nella notte dei tempi ma, purtroppo, per disinformazione, ancora in uso con conseguenze spesso drastiche.

Le Sindromi da avvelenamento:

Gli studi di micotossicologia, pur essendo questa una scienza ancora giovane, hanno portato a conclusioni univoche tra i vari studiosi che hanno inteso classificare le sindromi da avvelenamento da funghi a seconda del tempo intercorrente tra il consumo del prodotto fungino e la manifestazione dei primi sintomi di malessere. Il tempo intercorrente viene definito “periodo di latenza”. Se i sintomi si manifestano tra la fine del pasto e le sei ore successive, si parla di “sindrome a breve latenza”, se invece si manifestano dopo le sei ore dall’assunzione del pasto, si parla di “sindrome a lunga latenza”.

Sindromi a breve latenza:

Sono quelle che si manifestano, come già detto, nell’immediatezza del consumo dei funghi e fino a sei ore dopo. Si tratta di sindromi precoci e sono le meno pericolose in quanto consentono un rapido ricorso alle cure mediche ed una conseguente eliminazione delle sostanze tossiche non ancora completamente assimilate. Sono dovute al consumo di funghi che causano disturbi funzionali più o meno seri che, generalmente, si risolvono nel giro di pochi giorni senza lasciare traccia o danni d’organo. . E’ opportuno però evidenziare che, in soggetti anziani o con particolari patologie, possono avere conseguenze anche gravi e, in qualche caso, anche mortali. (vedi sindrome panterinica).

Tali sindromi si distinguono principalmente in: gastrointestinale; muscarinica; panterinica; coprinica; emolitica; paxillica, neurotossica, atassica… ed altre ancora.

Sindromi a lunga latenza:

Sono quelle che si manifestano, come già detto, dopo almeno 6 ore dal consumo dei funghi e fino a oltre 24-32 ore. Sono sindromi che possono causare gravi danni ai principali organi e condurre, come spesso si è verificato, anche a morte. Le cause di tali devastanti effetti sono da ricondurre, ovviamente, tanto alla tipologia ed alla composizione chimica delle tossine, quanto al fatto che l’insorgenza ritardata della sintomatologia non consente un tempestivo intervento medico che spesso arriva quando i principi tossici hanno già causato danni gravi ed irreversibili.

E’ opportuno precisare che esistono specie fungine velenose il cui effetto, spesso mortale, si manifesta anche 10-15 giorni dopo il loro consumo (Cortinarius orellanus, C. speciosissimus).

Le sindromi a lunga latenza si distinguono principalmente in: falloidea; orellanica; giromitrica; rabdomiolitica; acromelalgica; nefrotossica; encefalica… ed altre ancora.

Tra le numerose sindromi a breve e lunga latenza conosciute – sopra non tutte menzionate – riteniamo opportuno, al solo fine di mantenere lo scopo unicamente informativo della presente “Riflessione Micologica”, rimandando il lettore, per un eventuale approfondimento in materia, ad un testo specifico di valenza scientifica, soffermarci su alcune di esse:

Sindrome gastrointestinale (a breve latenza entro 6 ore)

Si manifesta a circa 2-3 ore dal consumo dei funghi con manifestazione di nausea, vomito, diarrea, crampi addominali, prostrazione. L’elenco delle specie responsabili è abbastanza lungo tanto da rendere difficoltosa la sua stesura, si ritiene che possa allungarsi nel tempo a seguito di ulteriori approfonditi studi che potrebbero individuare altre specie, in atto ritenute commestibili o di commestibilità non comprovata, responsabili di tossicità.

Tra le specie maggiormente indiziate citiamo: Boletus satanas, Boletus pulchrotinctus, B. legaliae, B. rhodoxanthus, B. rhodopurpureus, B. luteocupreus, B. torosus; Entoloma lividum, E. vernum, E. rhodopolium; Tricholoma pardinum, T. josserandii, T. saponaceum, T. sulphureum; Omphalotus olearius; Hypholoma fasciculare; Armillaria mellea; Agaricus xanthodermus; Lactarius torminosus…

Tricholoma saponaceum

Sindrome muscarinica (a breve latenza entro 6 ore)

Ha un periodo di latenza variabile tra i 15 minuti e le tre ore.

La sintomatologia tipica si manifesta con dolori addominali, vomito, diarrea, cefalea, ipersalivazione, intensa sudorazione, disturbi visivi, lacrimazione, tremori, bradicardia, broncocostrizione. L’intensa perdita di liquidi può portare a disidratazione.

E’ l’unica forma tossica per la quale è stato individuato un antidoto specifico: l’atropina.

Il principio attivo tossico è la “muscarina”, un alcaloide isolato dall’Amanita muscaria. Si tratta di una tossina resistente alla cottura ma parzialmente idrosolubile: portata ad ebollizione solo una piccola parte viene eliminata mentre una parte consistente rimane nel fungo. La muscarina pur se è stata isolata su Amanita muscaria si trova in quantità insignificanti in tale fungo mentre è presente in notevole quantità nei generi Clitocybe, Micena ed Inocybe. Le principali specie interessate sono: Clitocybe dealbata, C. cerussata, C. rivulosa C. phyllophila, C. candicans ed altre Clitocybe bianche; Mycena pura, M. rosea, M. pelianthina; tutte le specie appartenenti al Genere Inocybe.

Sindrome panterinica (a breve latenza entro 6 ore)

Ha un periodo di latenza variabile tra i 30 minuti e le tre ore.

I sintomi si manifestano, in un primo momento con disturbi gastrointestinali ed eccitazione psico motoria, per passare, successivamente, a manifestazioni di euforia, ebbrezza, stato confusionale, difficoltà di coordinazione, allucinazioni, ed ancora, in una fase più avanzata, astenia, sopore, amnesia e, come avvenuto in alcuni casi, decesso.

I principi tossici sono acido ibotemico, muscazone e muscimolo che si trovano, principalmente, sotto la cuticola e nello strato sottocuticolare. Anche se la cuticola viene eliminata il fungo mantiene la sua tossicità.

Le specie responsabili dell’intossicazione sono Amanita pantherina, A. muscaria, A. junquillea e le loro varietà e forme che mantengo la loro tossicità anche dopo bollitura.

Sindrome falloidea (a lunga latenza dopo 6 ore – mortale)

Il periodo di latenza varia tra le 6 e le 24 ore dal consumo dei funghi.

Amanita pantherina
Amanita pantherina

I sintomi si manifestano in fasi progressive di aggravamento: inizialmente disturbi gastrointestinali, dolori addominali, vomito, diarrea, stato di disidratazione; successivamente, nei giorni seguenti, dopo un apparente miglioramento, inizia a manifestarsi danno epatico che, in una fase ancora successiva, si avvia verso insufficienza epatica acuta, ipoglicemia ed ittero, coma epatico, insufficienza renale, decesso.

I principi tossici si identificano in fallolisine, falloidine e amanitine, queste ultime le più pericolose: la dose letale è pari a 0,1 mg per Kg di peso corporeo, basti pensare che un esemplare fungino di medie dimensioni contiene da 5 ad 8 mg. di amanitina, più che sufficienti per causare la morte di un individuo adulto (I. Milanesi 2015).

Le specie responsabile dell’intossicazione sono: Amanita phalloides, A. phalloides var. alba, A. verna, A. virosa, A. porrinensis; Galerina marginata, G. autunnalis, G. badipes; Conocybe filaris, Lepiota helveola, L. josserandii, L. brunneoincarnata, L. castanea, L. subincarnata, L. clypeolariodes…

Le statistiche riferiscono di numerosi casi di decesso e numerosi altri risolti con trapianto di fegato.

Sindrome orellanica (a lunga latenza dopo 6 ore – mortale)

Il periodo di latenza varia tra le 12 ore e 3-4 giorni, spingendosi, a volte, anche fino a 10 – 15 giorni o più. 

Amanita phalloides
Amanita phalloides

Sintomi principali: fase iniziale caratterizzata da disturbi gastrointestinali, nausea, vomito, diarrea, dolori epigastrici, spesso è presente un sapore metallico in bocca (sintomo caratteristico della sindrome orellanica), seguita da un periodo di apparente miglioramento con successivo aggravamento caratterizzato da dolori muscolari e lombari, cefalea, brividi, inappetenza, riduzione della quantità di urina, vomito biliare, iperazotemia, uremia, coma e possibile decesso. L’evoluzione verso un’insufficienza renale è spesso irreversibile. L’unica terapia a disposizione è la dialisi, di supporto durante il periodo di sofferenza renale ed è previsto il trapianto di rene nei casi in cui l’insufficienza renale è irreversibile.

La tossina responsabile è l’orellanina, una sostanza cristallina dall’aspetto simile a quello dello zucchero.

Specie responsabili: Cortinarius orellanus, C. speciosissimus.

La maggiore concentrazione di orellanina si ha nel C. orellanus dove, oltre che nel carpoforo, si trova anche nelle spore. Si stima che 40 – 50 grammi di fungo fresco contengono orellanina in dose letale per un individuo adulto (I. Milanesi 2015).

Sindrome giromitrica (a lunga latenza dopo 6 ore)

Il periodo di latenza spazia tra le 6 e le 48 ore. 

Gyromitra esculenta
Gyromitra esculenta

Sintomi principali: si manifestano con disturbi gastrointestinali caratterizzati da nausea, vomito, diarrea, cefalea, generalmente di modesta entità che, nei casi più gravi, dovuti generalmente all’assunzione abbondante ed in pasti ravvicinati, in dipendenza della quantità di giromitrina ingerita, possono evolvere verso un progressivo peggioramento con comparsa di ittero, disturbi neuropsichici, convulsioni, emolisi, anemia, danni consistenti al fegato ed ai reni, arresto cardiaco con possibile decesso.

La tossina responsabile è la giromitrina così chiamata in quanto contenuta in notevoli quantità in alcune specie del Genere Gyromitra nelle quali è stata individuata ed isolata.

Specie responsabili: Gyromitra esculenta, G. gigas, G. infula ed altre specie appartenenti ai generi:Helvella, Verpa, Ptychoverpa…

La Gyromitra esculenta, specie tipo, per la particolare somiglianza con le specie appartenenti al genere Morchella viene spesso confusa con queste ultime con ovvie conseguenze. A conferma di tale possibilità, si vuole fare riferimento alla trasmissione televisiva “La prova del cuoco” del 22 maggio 2014, durante la quale sono stati cucinati esemplari di Gyromitra scambiati, appunto, per Morchelle, specie fungine commestibili. Sulla pericolosità di quanto accaduto, soprattutto per l’informazione sbagliata che attraverso i media giunge al grande pubblico, sono prontamente intervenuti i Dirigenti del Centro Antiveleni (CAV) di Milano e dell’Associazione Micologica Bresadola di Trento.

Sindrome rabdomiolitica (a lunga latenza dopo 6 ore – mortale)

Il periodo di latenza varia da 24 a 72 ore.

La rabdomiolisi è una patologia che colpisce la muscolatura scheletrica e cardiaca; è provocata oltre che dall’ingestione di tossine contenute nel fungo Tricholoma equestre anche da numerosi altri fattori come traumi, sforzi eccessivi, uso di sostanze tossiche….

Sintomi principali: astenia, dolori muscolari, eritema facciale, sudorazione, nausea modesta senza vomito, urine scure, rossastre. Nella fase evolutiva si manifestano: iperpiressia (oltre 42° C), aritmie cardiache, miocardite acuta, aumento della dispnea, grave alterazione della funzione renale. In seguito, con la lesione e distruzione delle fibre muscolari del diaframma e del miocardio avviene il decesso. L’intossicazione evolve positivamente se il trattamento medico è tempestivo e prestato nelle prime fasi dell’insorgenza dei sintomi.

Tricholoma equestre
Tricholoma equestre

La specie responsabile è stata individuata nel Tricholoma equestre, conosciuto ed apprezzato da sempre come ottimo commestibile che, invece, si è reso responsabile di intossicazioni di grave entità, anche mortali, dopo il consumo abbondante ed in pasti ravvicinati (effetto accumulo). La casistica in materia fa riferimento ad episodi di intossicazione collettiva verificatisi in una circoscritta zona della costa atlantica della Francia interessando ben 12 persone, con evoluzione infausta per tre di esse. Il fatto è stato documentato da un gruppo di ricercatori francesi nel 2001con una ricerca approfondita. Anche se in Italia non sono mai stati registrati casi di intossicazione da Tricholoma equestre, il consumo e la raccolta di questa specie sono stati vietati, per disposizione di legge, su tutto il territorio nazionale (Ordinanza Ministero della Salute del 20 agosto 2002).

Ritenendo che le poche nozioni di micotossicologia che abbiamo inteso trattare in questa “Riflessione Micologica”, siano sufficienti per fare nascere la consapevolezza della pericolosità nell’utilizzo in cucina dei funghi e dei rischi di notevole consistenza cui si va incontro consumandoli senza le opportune cautele, desideriamo chiudere la nostra “Riflessione” con le solite raccomandazioni: consumate funghi della cui commestibilità siete certi ricorrendo sempre al giudizio di un micologo professionista richiedendo il rilascio della certificazione di commestibilità.

Foto:

Archivio fotografico del micologo Franco Mondello (Foto Gyromitra esculenta prelevata da siti web)

Bibliografia essenziale:

  • Assisi Francesca, 2012: I funghi: guida alla prevenzione delle intossicazioni. Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda – Centro Antiveleni Milano, Milano
  • Assisi Francesca, Balestreri Stefano, Galli Roberto, 2008: Funghi velenosi. dalla Natura, Milano
  • Cocchi Luigi, Siniscalco Carmine, 2012: Micotossicologia: una visione moderna. 5° Convegno Internazionale di Micotossicologia (5CIMT), Milano 3 – 4 dicembre
  • Della Maggiora Marco, 2007: Gli avvelenamenti da funghi. Micoponte – Bollettino del Gruppo Micologico Massimiliano Danesi, n. 1: 24-40, Ponte a Moriano (LU)
  • Donini Marco, 2004: Una subdula intossicazione. Bollettino del Gruppo Micologico G. Bresadola – Trento anno XLVII n. 3: 5-12, Trento
  • Marra Ernesto, Macchioni Claudio, 2015: Il consumo in sicurezza dei funghi. Regione Calabria Giunta Regionale Dipartimento tutela della salute e politiche sanitarie – Confederazione Micologica Calabrese
  • Milanesi Italo, 2015: Conoscere i funghi velenosi ed i loro sosia. A.M.B. Fondazione Centro Studi Micologici – Trento
  • Pelle Giovanna, 2007: Funghi velenosi e sindromi tossiche. Bacchetta Editore, Albenga (SV)

Riferimenti Siti Web:

http://www.micoponte.it/

www.appuntidimcologia.com/

www.micologiamessinese.it

Langermannia gigantea (Batsch) Rostk

“Accade spesso specie durante incontri di natura conviviale, che uno o più dei presenti, a conoscenza della mia ormai ben nota passione per lo studio dei funghi, mi rivolga qualche domanda, al fine di chiarire le proprie idee e conoscenze o anche per semplice curiosità, su questo meraviglioso mondo che da sempre ha destato l’interesse e la curiosità umana. E fu così che ieri l’altro (5 settembre 2015), sulla spiaggia di Rometta marea, ridente cittadina turistica affacciata sul litorale tirrenico della provincia di Messina, durante un incontro serale con numerosi amici per godere, attorno ad un fumante barbecue, della brezza marina serale in riva al mare a conclusione delle vacanze estive, uno dei presenti, appassionato di trekking, mi ha mostrato, sul proprio smart phone, la foto di un bellissimo esemplare fungino nel quale si era imbattuto durante una delle sue passeggiate naturalistiche, chiedendomi delucidazioni in merito alla sua denominazione e fornendomi, al contempo, lo spunto per questa ulteriore “Riflessione Micologica”.

Langermannia gigantea (Batsch) Rostk. = Calvatia gigantea (Batsch) Lloyd

Con la denominazione originaria di Lycoperdon giganteum, sostituita nel tempo con Langermannia gigantea e, ancora, con la più recente ed attuale denominazione di Calvatia gigantea, si è soliti fare riferimento ad un fungo facilmente identificabile stante le sue peculiari caratteristiche morfologiche e le notevoli dimensioni che generalmente raggiunge. Si posiziona, nella sistematica fungina, nel Genere Langermannia, Famiglia Lycoperdaceae, Ordine Lycoperdales, Classe Basidiomycetes; viene inserito nel Gruppo Informale dei Gasteromiceti (gruppo al quale appartengono funghi con forma globosa al cui interno si formano gli elementi riproduttivi: le spore). Ha dimensioni notevoli che si spingono fino ad un diametro di 50-70 cm, raggiungendo, per gli esemplari più grandi, un peso che può arrivare fino ai 20-25 chilogrammi. Si presenta globoso, privo di cappello e gambo.

Esoperidio (parte esterna che avvolge il fungo – vedi appresso) leggermente feltrato, di colore biancastro con tendenza a screpolarsi ed a scurire a maturazione.

Gleba (parte interna del fungo – vedi appresso) compatta, da inizialmente bianca a giallo-olivastro, poi bruno-olivastro e pulverulenta a maturazione.

Columella (parte della gleba – vedi appresso) assente.

Fruttifica generalmente in estate-autunno, in giardini, prati e pascoli, generalmente su resti marcescenti di piante morte presentandosi, quindi, come fungo saprofita. E’ ritenuto commestibile solo se consumato da giovane, fino a quando è ben consistente e la carne soda e bianca; viene maggiormente apprezzato se tagliato a fette e cucinato a cotoletta.

Non si può dire che i funghi appartenenti a tale gruppo siano inseriti in un ordine vero e proprio, tanto che più che di “Ordine” si può meglio parlare di “Gruppo Informale” in quanto il raggruppamento è piuttosto artificioso ma, in ogni caso, basato su caratteri morfologici comuni ben riscontrati nelle varie specie fungine che ne fanno parte. Al gruppo appartengono funghi di forma globosa, almeno nella fase iniziale della loro formazione, che racchiudono al proprio interno l’imenio (parte fertile del fungo ove si formano le spore) che, quindi, non è esposto all’aria; per tale caratteristica vengono inseriti nella Sottoclasse Gastromyceditae. Per maggiore chiarezza dobbiamo dire che i funghi con imenio esposto all’aria appartengono, invece, alla Sottoclasse Hymenomycetidae.

I Gasteromiceti sono racchiusi, nella generalità delle specie ad essi appartenenti, in un involucro esterno denominato “peridio”, delimitato, all’esterno, da uno strato detto “esoperidio” ed all’interno da uno detto “endoperidio”. All’interno del peridio è racchiusa la parte fertile del fungo chiamata “gleba” ove si formano le spore, deputate alla riproduzione della specie. In alcune specie, nella parte centrale della gleba, è presente una zona sterile chiamata “columella”. La dispersione delle spore, giunte a maturazione, avviene o in maniera naturale con la rottura del peridio attraverso l’apertura di uno o più pori apicali o in maniera meccanica con la rottura del peridio, che rimane permanentemente chiuso, per azioni esterne. In considerazione di ciò la dispersione delle spore avviene in maniera diversa a seconda della specie di appartenenza: le spore che a maturazione diventano masse pulverulente (Genere Lycoperdon, Calvatia, Langermannia, Bovista…) vengono disperse e diffuse dal vento; le spore che sono immerse in una gleba gelatinosa e maleodorante (Genere Phallus, Mutinus, Clathrus…) si disperdono per intervento degli insetti che attirati dal cattivo odore degli esemplari fungini fungono da veicolo di diffusione. Anche le specie ipogee (basidiomi che crescono sotto la superficie del terreno, esempio: Genere Rhizopogon) diffondono le proprie spore utilizzando, quale veicolo di diffusione, gli animali che attirati dal loro odore se ne cibano con conseguente dispersione delle spore.

I Gasteromiceti, come sopra accennato, si presentano, generalmente, in forma arrotondato-globosa e sono privi di cappello e gambo ben definiti. A questa regola fanno eccezione alcuni generi che inizialmente, nella fase primordiale della loro formazione, si presentano in forma sferica, assumendo, a maturazione, una forma generale con gambo e cappello definiti o quasi (Genere Tulostoma, Battaraea, Gyrophragmium, Phallus…).

Langermannia gigante
Langermannia gigante

Per completezza espositiva, concludendo la nostra “Riflessione Micologica”, ci piace precisare che ai Gasteromiceti appartengono le seguenti famiglie: Lycoperdaceae; Geastraceae; Sclerodermataceae; Nidulariaceae; Phallaceae; Hymenogastraceae.

Ricordiamo sempre, come ormai nelle nostre abitudini, di non consumare funghi della cui commestibilità non si è certi, richiedere sempre il giudizio di un micologo professionista accompagnato dal rilascio di certificazione mico-sanitaria.

Foto: Angelo Miceli

Bibliografia essenziale:

  • Boccardo Fabrizio, Traverso Mido, Vizzini Alfredo, Zotti Mirca, 2008: Funghi d’Italia, Zanichelli, Bologna (ristampa 2013)
  • Papetti Carlo, Consiglio Giovanni, Simonini Giampalolo, 2004: Atlante fotografico dei Funghi d’Italia. Vol. I (seconda ristampa), A.M.B. Fondazione Centro Studi Micologici, Trento
  • Phillips Roger, 1985: Riconoscere i funghi. Istituto Geografico De Agostini, Novara
  • Sarasini Mario, 2005: Gasteromiceti epigei. A.M.B. Fondazione Centro Studi Micologici, Trento

Riferimenti siti Web:

www.indexfungorum.org/
www.micologiamessinese.it
www.funghiitaliani.it/

Pubblicato su “I Sapori del Mio Sud” anno XII n. 126 gennaio 2016

Andar per funghi anche in inverno Flammulina velutipes

Flammulina velutipes
Flammulina velutipes

In una precedente “Riflessione Micologica”, redatta appositamente per il lettori de “I sapori del mio sud” (vedi n. 116 marzo 2015), soffermandoci sui funghi del tardo autunno e dell’inverno, abbiamo affermato che questi piccoli “abitanti dei boschi”, contrariamente a quanto popolarmente creduto, non crescono solo nel periodo di fine estate – inizio autunno ma sono soliti fare la loro apparizione durante tutto l’anno, anche nelle stagioni più fredde. Questa nostra affermazione avrà, senz’altro, fatto nascere qualche perplessità in non pochi lettori, convinti, per tradizione atavica, del contrario. A conferma della nostra affermazione, che riproponiamo ancora una volta, intendiamo, nel ribadire il concetto, presentare, ai nostri lettori, un piccolo macromicete tipico del periodo invernale che spesso viene ritrovato ricoperto di neve.

Flammulina velutipes (Curtis) Singer: molto diffuso, conosciuto ed apprezzato nelle regioni settentrionali, raramente presente nelle aree boschive del meridione d’Italia, nella sistematica micologica appartiene al Genere Flammulina, Famiglia Marasmiaceae, Ordine Agaricales, Classe Basidiomycetes. E’ un piccolo macromicete dalle dimensioni del cappello variabili da 2 a 8 centimetri di diametro, dai colori meravigliosi che vanno da un giallo-arancione al rossastro, con una zona più scura al centro con una diffusa vischiosità. Nella fase iniziale della sua crescita si presenta emisferico, poi appianato, caratterizzato da una leggera striatura al margine più evidente in gioventù. La zona imeniale (zona fertile dei funghi, situata nella parte inferiore del cappello), ha lamelle fitte, adnate (attaccate al gambo) di colore crema, giallastro chiare; il gambo, cilindrico, vellutato, è di colore giallo-arancione all’apice e bruno-nerastro verso il basso. E’ tipico dei boschi di latifoglie, specialmente olmo sui cui ceppi cresce e si riproduce in maniera cespitosa, inizialmente da parassita (fungo che trae il proprio sostentamento a scapito di altri organismi viventi), poi, dopo la morte dell’albero ospite, da saprofita (fungo che degrada sostanze organiche morte di cui si nutre), continuando a nutrirsi delle sostanze in decomposizione dello stesso albero.   Fa la sua apparizione nel tardo autunno fino ad inverno inoltrato ed è facile che venga ritrovato, come già detto, anche sotto la neve. E’ il tipico fungo invernale per eccellenza, molto ricercato dai micofagi per essere utilizzato in zuppe e contorni. Il nome della specie, velutipes, fa riferimento alla caratteristica principale più evidente: piede vellutato. Infatti la base del gambo è ricoperta di fitta peluria bruno nerastra, corta, che ricorda il velluto. È assai apprezzato soprattutto per il suo aroma. Noto in Giappone con il nome di Enokitake si ritiene, a seguito di esperimenti effettuati su animali, da alcuni scienziati, che contenga sostanze che impediscono la diffusione di cellule cancerogene e, pertanto, commercializzato ad uso terapeutico in capsule contenenti suoi derivati. Da alcuni anni viene riprodotto in serra ed è commercializzato su larga scala, tanto che è possibile trovarlo in numerosi supermercati nelle regioni settentrionali.

Si tratta di una specie consumata, da sempre, senza conseguenze ma che, recentemente, a causa dell’avvenuta segnalazione di alcune intossicazioni ad essa imputabili, con sintomatologia a breve latenza ed effetti gastrointestinali, deve essere considerata sospetta e consumata con prudenza e senza eccedere nelle quantità. Il principio tossico è ancora sconosciuto, ritenendo, quale probabile causa delle intossicazioni, visto il periodo di fruttificazione tipico della stagione invernale, il consumo di esemplari congelati e scongelati sul ceppo a causa di abbassamento e successivo innalzamento delle temperature stagionali (I. Milanesi 2015).

Attenti al sosia: considerata la crescita cespitosa e le caratteristiche morfocromatiche, può facilmente essere confuso con Armillaria tabescens (commestibile) che ha colori meno vivaci ed il cappello non vischioso e con Hypholoma fasciculare (velenoso) che presenta il cappello sugli stessi toni giallastri ma con lamelle verdastre e gambo non vellutato ed è dotato di anello.

Curiosità: verso la fine del secolo scorso, da parte della NASA, è stato condotto un esperimento ai fini di studio inteso a determinare il comportamento dei funghi in assenza di gravità: culture di Flammulina velutipes sono state imbarcate su una navicella spaziale e sono state mandate nello spazio. Contrariamente a quanto generalmente avviene in natura, sulla terra, per i funghi lignicoli che crescono con il gambo ricurvo vicino alla base sviluppandosi, successivamente, verso l’alto con il cappello parallelo al suolo al fine di consentire un regolare spargimento delle spore sul terreno, in assenza di gravità, a bordo della navicella spaziale, i funghi sono cresciuti in maniera disordinata in tutte le direzioni e con angolazioni diverse (S. Balestreri 2011).

Chiudiamo questa nostra “Riflessione Micologica” con le solite raccomandazioni: non utilizzate, per consumo personale, funghi che prima non siano stati sottoposti al giudizio di un micologo professionista; il servizio è gratuito e fornito dalle USP in ogni città d’Italia.

Bibliografia essenziale:

Balestreri Stefano, 2011: Flammulina velutipes. Estratto da “Appunti di Micologia” (www.appuntidimicologia.it)
Boccardo Fabrizio, Traverso Mido, Vizzini Alfredo,  Zotti Mirca, 2008: Funghi d’Italia,  Zanichelli, Bologna
Papetti Carlo, Consiglio Giovanni, Simonini Giampaolo, 2004: Atlante fotografico dei funghi d’Italia. Vol I (seconda ristampa), A.M.B. Fondazione Centro Studi Micologici, Trento
Milanesi Italo, 2015: Conoscere i funghi velenosi ed i loro sosia commestibili. A.M.B. Fondazione Centro Studi Micologici, Trento 

Riferimenti Siti web: ·        

www.appuntidimicologia.it
www.funghi.funghiitaliani.it
www.gmncollieuganei.it

Foto:

Liberamente tratte da siti web

Pubblicato su “I Sapori del mio Sud” anno XI n. 125 dicembre 2015

Andar per funghi….. “Il Chiodino”

Armillaria mellea
Armillaria mellea

Conosciuto, ricercato ed apprezzato in cucina sin dai tempi più remoti, anche se per il suo uso gastronomico non vengono seguiti, soprattutto perché sconosciuti dalla maggior parte dei consumatori, i consigli utili ad un suo corretto utilizzo ai fini della commestibilità, il “Chiodino” è solito fare la sua apparizione sin dall’inizio dell’autunno crescendo cespitoso, da parassita-saprofita, sugli alberi nei boschi di latifoglie e di conifere e, in maniera piuttosto ricorrente, anche su culture arboree da frutto.

Considerato da numerosi micofagi un ottimo commestibile ed annualmente oggetto di una spietata caccia è, in realtà, proprio per la sua ricercatezza, per la sua abbondante crescita e per il suo diffuso consumo, il principale responsabile dei numerosi ricoveri ospedalieri per intossicazione da funghi.

Il suo nome scientifico, Armillaria mellea, derivato dal latino armilla = braccialetto con riferimento all’anello che adorna la parte superiore del gambo e da mellea, attinente al miele, con riferimento al suo colore, lo connota, nel vasto “Regno dei Fungi”, nel Genere Armillaria, famiglia Tricholomataceae, Ordine Agaricales.

Armillaria mellea
Armillaria mellea

I cromatismi del cappello sono vari e diversificati e vanno messi in relazione con la cultura vegetale su cui si sviluppa, variando dal giallo-miele, al brunastro, al grigio nerastro; la superficie è ricoperta da piccole squame feltrose più fitte al centro che risulta di colore più scuro; è sempre presente, in maniera più o meno accentuata, un piccolo umbone.

Le lamelle, leggermente decorrenti (attaccate al gambo e prolungate verso il basso), hanno un colore che va dal biancastro al bruno e, a maturità, sono macchiate di ocra-brunastro. Le spore in massa di colore bianco, lo classificano come leucosporeo.

Il gambo, biancastro, scuro brunastro alla base, è coriaceo e fibroso e non è adatto al consumo. Nella parte superiore è ornato da un anello infero (quando si forma partendo dal basso e si allarga verso l’alto), chiamato “Armilla” da cui prende il proprio nome.

E’ un fungo che cresce, si nutre e riproduce, da parassita, su numerose culture arboree provocando il “marciume radicale fibroso” che attacca la pianta fino a distruggerla completamente. Il fungo, completato il suo lavoro da parassita, continua a vivere sulle sostanze morte delle piante, ora in fase di decomposizione, nutrendosi delle stesse ed assumendo, così, la veste di fungo saprofita.

E’ un buon commestibile ma tossico da crudo. Per il suo corretto consumo bisogna tenere presenti alcune accortezze alle quali ci si deve attenere scrupolosamente: eliminare il gambo, anche negli esemplari più giovani, in quanto fibroso, coriaceo e, pertanto, molto indigesto. Fare bollire, prima del consumo, i funghi in quanto contengono tossine (emolisine) di natura termostabile-solubile che perdono la loro tossicità se portati a temperatura di ebollizione. Per tale motivo è necessario fare bollire, preventivamente, il prodotto eliminando, poi, l’acqua di cottura e procedendo, successivamente, a regolare cottura per almeno 15-20 minuti a fuoco vivo e senza coperchio. Sono stati registrati casi di disturbi intestinali a breve latenza provocati dall’uso di esemplari di Armillaria mellea congelati a fresco, senza preventiva bollitura. Si ritiene, quale ipotesi maggiormente accreditata, anche se in atto non ancora provata da studi approfonditi, che con la congelazione le tossine vengano fissate nella struttura del fungo e, successivamente, anche se i funghi vengono scongelati e cucinati in maniera corretta, queste perdano la loro caratteristica di solubilità e non vengono più smaltite con la bollitura. Per questa particolare reazione al freddo è sconsigliato raccogliere e consumare questa specie fungina e le specie ad essa affini se la temperatura ambientale è scesa sotto lo zero nei giorni immediatamente precedenti il ritrovamento. 

L’intossicazione da Armillarea mellea si manifesta entro poco tempo dal consumo dei funghi, generalmente 1-2 ore, anche se sono stati registrati casi in cui i sintomi si sono manifestati oltre le sei ore. I sintomi principali sono diarrea, sudorazione, rinorrea, astenia, crampi muscolari, confusione mentale, vertigini, atassia cerebellare.

Hypholoma fasciculare
Hypholoma fasciculare

Fare attenzione, durante la raccolta, a non confonderlo con Hypholoma fasciculare, molto simile ad Armillaria mellea ma particolarmente tossico e con tossine termostabili, (quando le tossine permangono anche dopo la bollitura), non commestibile e causa di sindrome gastroenterica costante di natura violenta con possibili complicazioni epatorenali. Presenta caratteristiche similari ad Armillaria mellea, soprattutto per la analoga crescita cespitosa sopra tronchi di albero ma con caratteristiche morfologiche diverse come il colore delle lamelle che da giallo verdastro diventa nerastro a maturazione, la superficie del cappello sempre liscia e priva delle classiche squamette fibrose tipiche di A. mellea e la mancanza di un anello ben evidenziato, oltre al sapore della carne che è amaro.

Consigli per il consumo: non è necessario utilizzarlo in cucina ma…. se proprio non potete farne a meno fate buon uso di quanto sopra esposto utilizzandolo e cucinandolo in maniera corretta, limitandone il consumo a piccole quantità e mai in pasti ravvicinati al fine di evitare effetti di accumulo e ricorrete sempre, prima del consumo, al giudizio di commestibilità espresso da un micologo professionista. Il servizio è gratuito presso le USP su tutto il territorio nazionale.

Foto:

Archivio mico-fotografico del micologo Franco Mondello

Bibliografia essenziale:

  • F. Boccardo – M. Traverso – A. Vizzini – M. Zotti: “Funghi d’Italia” ed. Zanichelli – Bologna 2013 (ristampa)
  • I. Milanesi: “Conoscere i funghi velenosi ed i loro sosia commestibili” – Ed. Associazione Micologica Bresadola – Fondazione Centro Sudi Micologici – Trento 2015
  • C. Papetti, G. Consiglio, G. Simonini: “Atlante fotografico dei Funghi d’Italia” Ed. Associazione Micologica Bresadola – Fondazione Centro Studi Micologici

Riferimenti siti web:

  • http://www.micologiamessinese.altervista.org/
  • http://www.amint.it/
  • http://www.appuntidimicologia.com/

Pubblicato su:

“I Sapori del Mio Sud” anno XI n. 124 novembre 2015;

“Moleskine” Anno 8 n. 11 Novembre 2015.

Tra scienza, credenze e realtà

“E’ ancora vivo in me il ricordo dei racconti cui mia madre era solita ricorrere per attirare la mia attenzione quando, come si è soliti fare con i bambini, era necessario farmi stare tranquillo per il pasto o per lasciarmi addormentare ascoltando la sua calda voce. Ella andava a ritroso nel tempo, ricercando, tra i suoi ricordi, piacevoli esperienze che la riportavano indietro sino al periodo dei suoi anni verdi quando,  ancora fanciulla, era solita accompagnarsi ai suoi coetanei nei boschi che circondano l’abitato di Tusa, piccolo centro montano del messinese nella catena  dei monti Nebrodi, unitamente a Nicoletta, Giuseppina, Santina, improvvisandosi “funciari” (cercatori di funghi), sapientemente guidati nella ricerca da “zu Cicciu” (zio Ciccio – Francesco), “esperto locale” nel riconoscimento delle varie  specie e profondo conoscitore – solo in maniera empirica, purtroppo – delle abitudini di questi simpatici abitanti dei boschi. Costui, “micologo improvvisato”, si lasciava andare a tante dissertazioni che allora, come ancor oggi succede, venivano tramandate da generazione in generazione senza avere alcun supporto scientifico, nate dalle molte superstizioni legate alla mancanza di conoscenze scientifiche sul “Regno dei Fungi”.

Oggi, fortunatamente, approfonditi studi di natura scientifica consentono di sfatare le innumerevoli leggende concepite sin dagli albori della civiltà e partorite dalla fantasia e dalle superstizioni legate alla mancanza di conoscenze specifiche in materia micologica.

Le numerose credenze che, ancora oggi, purtroppo, popolano il “Regno dei Fungi”, nascono in tempi assai remoti e, in tanti casi, oltre che delle superstizioni, furono frutto delle deduzioni e degli studi – ancora primordiali – condotti e portati a termine da illustri uomini di cultura del passato i quali, in ogni caso, hanno contribuito a spianare la strada agli studi successivi.

fome fomentarius
Fomes fomentarius

I funghi conosciuti fin dai tempi preistorici, come scientificamente provato dal ritrovamento di vari fossili che hanno consentito la loro datazione addirittura a oltre 100 milioni di anni fa, sono stati cibo per l’uomo preistorico che imparò a proprie spese che tra di questi esistono anche specie velenose, imparando, tra l’altro, come utilizzarli per migliorare la propria condotta di vita. Numerosi ritrovamenti hanno consentito di stabilire che diversi funghi venivano utilizzati per necessità quotidiane: il Fomes fomentarius, essiccato, veniva usato come esca per accendere il fuoco.  Il ritrovamento nel 1991, sulle alpi trentine, della mummia di “Otzi”, “l’uomo del Similaun”, – vissuto certamente tra il 3.350 e il 3.150 a. C.-, nel cui corredo furono ritrovati resti di un fungo identificato come Fomes fomentarius, unitamente a schegge di selce, è stato una ulteriore conferma sull’utilizzo di questo fungo.

I greci ed i romani ne facevano largo uso. Apicio, celebre gastronomo dell’impero romano  lasciò,  nella sua opera “De  re culinaria”, ampia testimonianza sul modo in cui dovevano essere preparati per una migliore degustazione.

Cerchio delle streghe

 L’intrinseca natura del fungo, la sua origine sconosciuta, il suo misterioso apparire, la mancanza di una pianta che lo sostiene, la sua velenosità, le varie forme di crescita (spesso in cerchi, forma di nascita che si riteneva essere conseguente ad incontri notturni tra streghe e demoni – da cui il nome “Cerchio delle Streghe”), hanno favorito il nascere di superstizioni e di false credenze.

Amanita phalloides

Il fungo veniva considerato come qualcosa di diabolico e, probabilmente, stregoni e fattucchiere utilizzavano a proprio uso e consumo le superstizioni della gente. Tra l’altro, conoscendo la natura mortale di alcune specie ne facevano uso per liberarsi di personaggi scomodi anche su commissione; vedi, ad esempio, la morte dell’imperatore romano Augusto voluta dalla moglie Agrippina per consentire al figlio Nerone di accedere al trono imperiale, commissionata, appunto, ad una fattucchiera che la provocò con un lauto pranzo a base di funghi con aggiunta della mortale Amanita phalloides.

Nel corso dei secoli numerosi studiosi si avvicinarono al “Regno dei Funghi”, traendo le prime deduzioni che, anche se inizialmente incerte e confuse, unitamente a poche valide deduzioni, hanno contribuito, passo dopo passo, alla nascita della moderna micologia.

Aristotele (Stagira –Macedonia- 384–322 a. C.) poche le sue considerazioni micologiche: I funghi sono essenze vegetali imperfette che crescono dalla fermentazione degli umori della terra o delle piante.

Teofrasto (Ereso -Isola di Lesbo-  370-286 a. C.), discepolo di Aristotele fu il primo a dedicarsi allo studio dei funghi ed a trarne le prime definizioni: “piante imperfette, prive di radici, di foglie, di fiori, di frutti”.

Pedacio Dioscoride (Anazarbe -Cilicia- 40-90 circa); ha studiato i funghi e la loro tossicità consigliando, in caso di avvelenamento, la somministrazione di un composto di sterco di pollo, miele ed aceto.

Claudio Galeno (Pergamo 129–200) individua, attraverso i suoi studi, tre generi di funghi: Ovoli, Porcini e Mykés (questi ultimi, a cappello e gambo, ritenuti tossici). Si addentra nello studio delle intossicazioni e conferma l’utilizzo della terapia a base di sterco di pollo.

Amanita muscaria
Amanita muscaria

Plinio il Vecchio (Como 23-79) Si occupò, in maniera approfondita, di scienze naturali, lasciando, nell’opera “Historia naturalis”, in 37 libri, tutto il sapere dell’epoca in materia botanica. Individua con esattezza un fungo a lamelle e verruche (attuale Amanita muscaria), deducendo, in maniera incontrovertibile, l’origine delle verruche stesse che “altro non sono che i residui del velo”.

I funghi, secondo Plinio:

  • organismi vegetali imperfetti, senza radici, senza fiori, senza frutti;
  • velenosi quelli terricoli, commestibili quelli legnosi;
  • velenosi quelli di latifoglia, commestibili quelli di aghifoglia;
  • velenosi quelli che cambiano colore al taglio, commestibili quelli immutabili al taglio e quelli di colore bianco;
  • elevato potere assorbente delle sostanze tossiche per vicinanza a ferri arrugginiti, panni sporchi, tane di serpenti;
  • utilizzo di sterco di pollo con aceto e miele per la cura delle intossicazioni;
  • cottura in vasellame d’argento o di giada per eliminare le sostanze tossiche.

Le sue teorie resistono fino a tutto il 1700 ed i numerosi naturalisti susseguitisi nel corso dei secoli le hanno pienamente confermate.

Non vogliamo continuare con un “trattato” di storia della micologia, ritenendo che quanto sopra riportato sia sufficiente per dedurre che numerose false credenze sui funghi siano nate proprio dai primi studi in materia di micologia e rafforzate, nel corso dei secoli, dalle innumerevoli superstizioni che si sono aggiunte alle fuorvianti deduzioni dei “pionieri” della micologia.

PARTE SECONDA

Riprendendo la nostra “Riflessione micologica”, iniziata sul numero precedente, riteniamo opportuno sfatare alcune convinzioni che, ancora oggi, sono solite circolare tra i numerosi, poco informati e ancor meno accorti, raccoglitori di funghi.

Hypholoma fasciculare
Hypholoma fasciculare

NON E’ VERO:

  • che tutti i funghi che crescono sul legno sono commestibili: Hypholoma fasciculare, fungo molto simile ad Armillarea mellea (commestibile con accortezza) e spesso con questo confuso, cresce su legno ed è tossico, provoca sindrome gastrointestinale costante con vomito violento;
  • che i funghi rosicchiati dalle lumache sono commestibili: Amanita phalloides, fungo velenoso-mortale e causa di numerosi decessi, viene regolarmente mangiucchiato dalle lumache;
  • che il cucchiaino d’argento messo a cuocere con i funghi annerisce se i funghi sono tossici o velenosi. E’ una pratica assurda e priva di qualunque supporto scientifico;
  • che la cipolla, l’aglio o il prezzemolo messi a cuocere con i funghi anneriscono in presenza di tossine o veleno. Le eventuali tossine o veleni presenti nei funghi non hanno alcun effetto su tali vegetali che imbiondiscono o anneriscono, al limite, per effetto del calore;
  • che la nascita di un fungo velenoso accanto ad uno edule comprometta la commestibilità di quest’ultimo. Ogni fungo mantiene le proprie caratteristiche indipendentemente dal soggetto che gli si trova vicino. E’ opportuno fare attenzione a non raccogliere quello sbagliato;
  • che usare il cane o il gatto come cavia è una buona pratica per identificare la tossicità dei funghi. Si tratta di una pratica assurda che, tra l’altro, non funziona: il metabolismo dei nostri piccoli amici è diverso da quello degli esseri umani che reagisco in maniera diversa in presenza di elementi tossici. In ogni caso è bene conoscere che esistono funghi il cui effetto tossico non è immediato ma si manifesta anche dopo diversi giorni dal loro consumo (Cortinarius orellanus e Cortinarius speciosissimus sono funghi velenosi il cui effetto, spesso mortale, si manifesta 10-15 giorni, o anche più, dopo il consumo);
Cortinarius orellanus
Cortinarius orellanus
  • che il colore del cappello, se molto vivace, è indice di velenosità. Amanita caesarea, di un bel colore arancio vivo è un fungo commestibile molto apprezzato mentre Amanita muscaria, di colore similare, rosso-arancio, con verruche bianche sul cappello, è altamente tossico;
  • che portando i funghi ad ebollizione le tossine ed i veleni contenuti vengono eliminati. Attenzione: alcuni funghi contengono tossine termolabili che vengono eliminate con la bollitura e l’eliminazione dell’acqua di cottura; altri funghi, con tossine “termostabili”, non risentono affatto dell’azione del calore e anche la cottura prolungata non modifica la loro tossicità o velenosità; mantengono la propria tossicità anche dopo bollitura. Il veleno esistente in molte specie fungine non può essere eliminato in alcuna maniera. Se il fungo è velenoso rimane sempre tale anche dopo bollitura o essiccazione;
  • che i funghi che cambiano colore al taglio sono tossici: Xerocomus badius e Boletus fragrans che cambiano colore al taglio e/o alla pressione sono commestibili;
Boletus fragrans
Boletus fragrans
  • che i funghi immutabili al taglio o di colore bianco sono commestibili: Amanita phalloides Var. Alba, Amanita verna ed Amanita virosa, sono di colore bianco e non cambiano di colore al taglio ma sono altamente velenosi e mortali;
Amanita verna
Amanita Verna
  • che le specie fungine mortali sono poche. Ad esempio citiamo solo alcune delle specie velenoso-mortali più conosciute: Amanita phalloides, Amanita phalloides  varietà Alba, Amanita virosa, Amanita verna, Amanita porrinensis, Cortinarius orellanus, Cortinarius speciosissimus, Galerina marginata, Galerina autumnalis, Galerina praticola, Lepiota josserandii, Lepiota brunneoincarnata; Lepiota brunneolilacea; Lepiota xanthophilla; Gyromitra esculenta, Gyromitra fastigiata;Tricholoma equestre (per quest’ultimo è vietata la raccolta su tutto il territorio italiano per espressa disposizione di legge)….. e la lista non si ferma qui.

Desideriamo, prima di chiudere questa lunga “riflessione micologica” congedarci dai nostri lettori con alcuni CONSIGLI UTILI:

  • consumare solo funghi della cui commestibilità si è certi: ricorrere sempre al giudizio di commestibilità espresso da un micologo professionista
  • diffidare sempre dei così detti “esperti”
  • NON procedere mai al riconoscimento dei funghi sulla base di confronti con foto o descrizioni riportate su libri o riviste; le descrizioni potrebbero essere male interpretate dai non esperti e le foto non rispecchiare fedelmente le caratteristiche degli esemplari in esame
  • consumare funghi solo se ben cotti, in quantità moderate e mai in pasti ravvicinati
  • consumare i funghi solo se in perfetto stato di conservazione
  • NON consumare funghi se sono in avanzato stato di maturazione
  • NON consentire il consumo di funghi a bambini e donne in stato di gravidanza
  • NON regalare o accettare funghi in dono se non accompagnati da certificazione mico-sanitaria rilasciata da un micologo professionista. Attenzione eventuali intossicazioni da funghi configurano conseguenze penali anche per chi li ha ceduti.

Potremmo dilungarci oltre sull’argomento esistendo ancora numerose credenze da sfatare ed i consigli utili alla raccolta in sicurezza dei funghi non sono mai abbastanza. Riteniamo però opportuno, anche per non approfittare dello spazio offertoci dal magazine che ancora una volta ci ospita, rimandare ad altro momento l’approfondimento di quanto in queste pagine trattato. Vogliamo ancora una volta ribadire il concetto: per consumare funghi in tranquillità, ricorrete sempre al giudizio di un esperto micologo; tale servizio viene svolto in maniera gratuita presso gli uffici micologici appositamente preposti ed operanti presso tutte le USP sul territorio nazionale.

Bibliografia essenziale:

  • G. Lazzari – “Storia della Micologia Italiana” – Ed. Saturnia 1973
  • G. Bellato –  “Storia della Micologia Italiana”
  • ISPRA – AMB – CSM – “Storia della micologia italiana e primo contributo alla nomenclatura corretta dei funghi”.
  • E. Marra, D. Macchioni – “Il consumo in sicurezza dei funghi” – Regione Calabria – Confederazione Micologica Calabrese

Riferimenti siti web:

  • http://www.micologiamessinese.altervista.org/
  • http://www.amint.it/
  • http://www.appuntidimicologia.com/

Foto:

archivio mico-fotografico del Micologo Franco Mondello

Pubblicato su: “I Sapori del Mio Sud” – Anno XI n. 123 ottobre 2015

Andar per funghi “I Prataioli”

  1. Parte Prima 

Con il nome generico ma non sempre appropriato di “Prataioli”, in quanto non sempre legati, per quanto riguarda la loro crescita, ad un ambiente praticolo, si intende identificare numerose specie di funghi appartenenti al Genere Agaricus.

Si tratta di macromiceti che, come si evince dalla denominazione generica di prataioli, sono soliti avere il proprio habitat nei prati, su letame o cumuli di sostanze organiche, non disdegnando, comunque, anche la fruttificazione in habitat boschivi. Crescono generalmente aggregati in piccoli gruppi e raramente cespitosi. Nel genere sono annoverate specie micorriziche e saprofite ma mai lignicole.

Si prestano facilmente ad essere coltivati in serra e, per tale loro predisposizione, rivestono, ormai da numerosi anni, un ruolo principale e di primaria importanza nell’economia mondiale e nell’industria alimentare. Fanno bella mostra esposti negli scaffali dei supermercati di tutto il mondo dove si possono trovare sia freschi sia conservati o predisposti in contenitori, puliti, tagliati e pronti per essere cucinati. Trovano utilizzo in cucina in svariati modi ed è facile trovarli sulle pizze servite nelle pizzerie di tutto il mondo.

Pur essendo diverse le specie di Agaricus che si prestano alla coltivazione, solo alcune vengono coltivate per la commercializzazione. La specie che, in assoluto, è la più coltivata in tutto il  mondo è Agaricus bisporus, ed anche se diverse specie di Agaricus sono state utilizzate per la coltivazione, nessuna di esse ha mai dimostrato la stessa versatilità alla coltivazione di Agaricus bisporus che, nelle sue varietà albidus (dal cappello completamente bianco e raro in natura) e avellaneus (specie da coltivazione nota come “cremino”, per il cappello color nocciola) occupa il primo posto nella produzione mondiale di funghi coltivati, seguita da Lentinula edodes  (conociuta come “shiitake”) e dalle diverse specie di Pleurotus (Pleuortus ostreatus, Pleurotus eryngii). 

In natura si posizionano, nel vasto “Regno dei Fungi”, nell’Ordine delle Agaricales, Famiglia Agaricaceae, Genere Agaricus. Nel genere sono annoverate specie di ottima qualità ed apprezzate dal punto di vista gastronomico e specie tossiche. Non ci sono specie velenose anche se le statiche lasciano registrare numerosi casi di avvelenamento per confusione, in fase di raccolta, con specie di Amanita con caratteristiche morfocromatiche similari (Amanita phalloides var. alba; Amanita verna; Amanita virosa). La loro fruttificazione avviene generalmente in estate ed in autunno. Alcune specie crescono anche in primavera prolungando la loro crescita fino in autunno.

Sono basidiomi carnosi, eterogenei (quando cappello e gambo hanno struttura molecolare diversa e quindi facilmente separabili l’uno dall’altro); imenoforo non asportabile; bivelangiocarpici (muniti di velo generale – solo per alcune specie – e velo parziale – sempre presente in tutte le specie); carne immutabile al taglio o virante al rosso o al giallo; lamelle libere intervallate da lamellule;  sporata bruno-porpora, bruno-tabacco, bruno-nerastro.

Il cappello, con un diametro variabile da 2 a 30 centimetri o più, si presenta, a seconda della specie, di un colore che va da bianco-biancastro a crema-giallastro, giallo-ocraceo e può giungere, a volte, a tonalità grigio-rosate, grigio-brunastre.

Le lamelle, libere al gambo e talvolta distanziate, sono larghe e fitte, inizialmente sono di colore chiaro e variano, a seconda della specie, dal biancastro al grigio-biancastro, rosa-grigiastro, rosa-beige, rosa chiaro. A maturità scuriscono fino a raggiungere colori più intensi come rosa-brunastro, bruno-porpora o bruno-nerastro.

Il gambo, generalmente centrale, è carnoso e strutturalmente formato da cellule diverse da quelle del cappello tanto che, come già detto, si stacca facilmente dallo stesso per la diversità della conformazione strutturale dei due elementi. E’ caratterizzato, in tutte le specie, dalla presenza di un anello, residuo del velo parziale che, a seconda della sua conformazione e della sua struttura, diversifica le varie specie consentendone il riconoscimento.

All’interno del Genere si dividono in Sottogeneri che si denominano, per il colore della carne al taglio, in: Agaricus (già Sezione Rubescentes Moller): basidiomi con carne e superficie ± arrossante al taglio e Flavoagaricus (già Sezione Flavescentes Moller): basidiomi con carne e superficie ± ingiallente al taglio. Tale ultimo sotto genere annovera, nella Sezione Xantodermatei – comprendente basidiomi con carne fortemente ingiallente sia la taglio sia allo sfregamento, con odore sgradevole di acido fenico – funghi fortemente tossici quali A. xanthodermus; A. moelleri; A. menieri; A. pseudopratensis ecc.

Pubblicato su “I Sapori del mio Sud” Anno XI n. 120 luglio2015

Andar per funghi: “I Prataioli”

Parte Seconda 

Riprendiamo l’argomento trattato nel numero precedente de “I Sapori del mio Sud” addentrandoci nella descrizione di alcune specie, limitandoci solo a poche, tra le tante appartenenti al genere Agaricus, per non occupare spazio in eccesso tra le pagine del Magazine che, ancora una volta, ci ospita:

Agaricus bisporus: (dal latino bisporus che genera due spore) appartiene alla Sezione Bitorques del Sottogenre Agaricus, ha cappello con diametro che va da 5 a 10 cm, inizialmente emisferico, poi convesso, appiattito a maturità. Ha superficie asciutta, di colore variabile dal grigio-bruno, grigio-beige, brunastro, bruno-rossastro, unita, poi dissociata in squame appressate concentriche su sfondo più chiaro. Le lamelle sono fitte, strette, libere al gambo, con poche lamellule, inizialmente di colore rosa-carnicino, poi rosa-grigiastro, a maturità più scure fino al bruno-nerastro. Il gambo è piuttosto corto, cilindrico, un po’ dilatato e arrotondato verso la base; asciutto, rosato sopra l’anello, sotto biancastro, liscio o appena fioccoso; è munito di anello infero (quando l’inserzione dell’anello inizia verso la parte inferiore del gambo per svilupparsi, poi, verso l’alto dove si allarga con una svasatura), di colore bianco, persistente. La Carne si presenta bianca,  leggermente rosso-vinoso al taglio sia nel cappello che nel gambo, ha odore gradevole, fungino, sapore dolce, simile a nocciola. Fruttifica in primavera-autunno, su terreni ricchi di letame o sostanze organiche. Specie rara in natura o comunque poco frequente.  Si tratta del noto «Champignon de Paris», coltivato in tutto il mondo, sia nella varietà albidus, completamente bianco, sia nella varietà avellaneus, dal cappello color nocciola e nota come “cremino” è un ottimo commestibile, apprezzato e conosciuto da tutti.

Agaricus campestris: (dal latino campester = campestre, perché cresce nei campi) appartiene alla Sezione Agaricus del Sottogenere Agaricus, presenta un cappello di colore bianco – biancastro, con diametro variabile da 5 a 15 cm. circa,

Agaricus campestris
Agaricus campestris

inizialmente emisferico-convesso, poi,  a maturità, piano. Margine involuto, lanoso ed appendiculato per i residui del velo. La Cuticola è asciutta, talvolta leggermente squamulosa a maturità, é di colore bianco, biancastro, spesso  rosata verso il margine e talvolta con fini fibrille. Le lamelle sono fitte, larghe, libere al gambo, con lamellule, inizialmente di un bel rosa vivo persistente, poi rosso scuro ed infine bruno nerastre. Il Gambo va da corto e tozzo a slanciato, si presenta sodo, cilindrico, sempre attenuato alla base, bianco, appena rosato sopra l’anello a maturità, sotto fioccoso-squamuloso, leggermente giallo-ocraceo al tocco verso la base. Presenta un Anello supero (quando l’inserzione dell’anello inizia verso la parte superiore del gambo sviluppandosi verso il basso dove si allarga con una svasatura) semplice, rudimentale, in genere stretto e sottile, presto fugace e quindi non più facilmente visibile, di colore bianco. Ha odore fungino molto gradevole. Fruttifica in primavera e autunno, in cerchi o a gruppi, tra l’erba delle radure di terreni compatti e incolti, in parchi, vigneti, sempre fuori dai boschi. E’ ritenuto un ottimo commestibile, da giovane può anche essere consumato crudo in insalata.

Agaricus augustus: (dal latino augustus = maestoso per le sue dimensioni) appartiene alla sezione Arvenses del sottogenere Flavoagaricus. Il cappello, con cuticola di colore bruno a varie tonalità, presto dissociata in piccole squame concolori,

Agaricus augustus
Agaricus augustus

ingiallente per sfregamento, può raggiungere grandi dimensioni fini a 20 cm. di diametro o oltre. Ha margine eccedente, appendicolato per i resti del velo parziale. Le lamelle si presentano fitte e libere al gambo, inizialmente di colore grigio-pallido, poi grigio-rosa scuro, rosa carnicine ed infine bruno nerastre. Il gambo è cilindrico, pieno, robusto, bianco, liscio sopra l’anello, squamoso sotto, ingiallente per sfregamento. L’anello è supero, striato nella parte esterna, fioccoso con fiocchi presto ingiallenti nella parte interna. La carne è bianca, appena ingiallente all’aria, bruno-rosata alla base del gambo. Ha forte odore di mandorle amare. E’ ritenuto un buon commestibile.

Agaricus xanthodermus: (dal greco xanthós = giallo e derma = pelle ossia pelle gialla per la caratteristica colorazione assunta al taglio o allo sfregamento) appartiene alla sezione Xanthodermatei del sottogenere Flavoagaricus. Il capello raggiunge

Agaricus xanthodermus
Agaricus xanthodermus

facilmente un diametro di 10-15 cm, inizialmente globoso-emisferico, spesso tipicamente trapezoidale; ha superficie bianca a toni giallo-ocraceo al centro, si macchia di giallo-cromo al tocco ed allo sfregamento. Le lamelle, libere al gambo ed arrotondate, sono inizialmente pallide, grigio-biancastre, poi grigio chiaro, grigio-rosa, infine grigio-rosa scuro e quindi bruno-nerastre. Il gambo è slanciato, spesso flessuoso, cilindrico con bulbo arrotondato o marginato alla base; bianco, giallo al tocco o allo sfregamento specialmente verso la base dove è maggiormente apprezzabile un tipico odore di fenolo o inchiostro di china, indice questo di tossicità. E’ caratterizzato dalla presenza di Anello supero, doppio, ampio e membranoso, persistente, bianco, sopra liscio, a ruota dentata ben definita sotto. Tossico.

Evitare, nella maniera più assoluta, il consumo di funghi appartenenti al Genere Agaricus che presentano carne ingiallente ed odore sgradevole. Accertarsi, in fase di raccolta, di non essere incappati in esemplari appartenenti al Genere Amanita che, come detto sopra, possono essere confusi e scambiati per Agarici con conseguenze drastiche e spesso mortali; esaminare accuratamente il colore delle lamelle e scartare gli esemplari con lamelle bianche (indice identificativo del Genere Amanita che enumera specie velenoso-mortali). Negli agarici le lamelle si presentano sempre colorate anche se, nella fase inziale della loro formazione, il colore è chiaro da biancastro a beige, presto rosa tenue, poi più carico, ma mai completamente bianco, giungendo, a maturazione, a colori sempre più scuri: bruno-tabacco, bruno-nerastro.

Non consumare mai funghi di cui non sia stata accertata la commestibilità da parte di micologi professionisti. Rivolgersi sempre ad un centro micologico per il riconoscimento di commestibilità ed il rilascio del relativo certificato.

Bibliografia essenziale:

  • R. Galli: “Gli Agaricus” Ed. dalla Natura.
  • F. Boccardo – M. Traverso – A. Vizzini – M. Zotti: “Funghi d’Italia” ed. Zanichelli.
  • C. Papetti, G. Consiglio, G. Simonini: “Atlante fotografico dei Funghi d’Italia” Ed. A.M.B

Foto: archivio mico-fotografico del micologo Franco Mondello

Pubblicato su “I Sapori del mio Sud” Anno XI n. 121 agosto 2015

Andar per Funghi: i Leccini

Conosciuti, sull’intero territorio nazionale, con la denominazione comune di “Porcinelli”, i Leccini meritano, a pieno titolo, tale appellativo, soprattutto per la loro spiccata somiglianza con i più pregiati e ricercati “Porcini” con i quali spesso vengono confusi, tanto che, non di rado, nei mercati rionali vengono venduti spacciandoli per questi ultimi.

A tal proposito mi piace riportare, solo per curiosità aneddotica, un episodio vissuto personalmente qualche tempo addietro quando, su invito di un amico, incontrato per le vie del centro nella città di Messina, venivo “spinto ad ammirare dei meravigliosi porcini” posti in vendita in un negozio di frutta e verdura sito nelle immediate vicinanze ove, ben predisposta per l’esposizione, faceva bella mostra una cassetta di funghi accompagnata da un cartellino con la scritta: “Porcini…€ 25,00 Kg.”.

Ben grandi furono inizialmente lo scetticismo e l’incredulità, poi l’ira e, successivamente, lo stupore e la meraviglia del venditore quando facevo osservare che non di porcini si trattava, bensì di più modesti prodotti fungini denominati “Leccini” il cui valore sul mercato poteva al massimo raggiungere i 7-8 euro al chilo. Dalla inevitabile discussione nata, potevo appurare che l’incauto fruttivendolo aveva acquistato la merce da uno sprovveduto – o forse furbo – raccoglitore che in buona o mala fede aveva fornito il prodotto senza curarsi, tra l’altro, di accompagnarlo con certificazione mico-sanitaria attestante la qualità e, soprattutto, la commestibilità dei funghi stessi.

Fatto questo breve inciso che vuole, soprattutto, mettere in guardia dall’acquistare prodotti fungini privi della prevista certificazione di commestibilità, ritorniamo alla nostra “riflessione micologica” occupandoci, per i lettori del Magazine che ancora una volta ci ospita, del Genere Leccinum.

Nella sistematica micologica, come avviene per il Genere Boletus, trova sistemazione nella Famiglia delle Boletaceae, Ordine Boletales. Al genere appartengono funghi caratterizzati, soprattutto, dal gambo per lo più slanciato ed ingrossato alla base, di solito con lunghezza superiore al diametro del cappello, ricoperto da squame fitte ed in rilievo. Il cappello, carnoso, si presenta con superficie variabile a seconda delle singole specie: asciutta o vischiosa, liscia, glabra o tomentosa (ricoperta da fine peluria), talvolta screpolata, di colore, anch’esso variabile, bianco, grigio, bruno, rossastro. L’imenoforo (zona sottostante il cappello ove si formano gli elementi cellulari utili alla riproduzione: spore) tipicamente boletoide, è costituito da tubuli lunghi e fini, facilmente separabili, di colore variabile dal bianco-biancastro al giallo o al grigio-biancastro. La carne, per tutte le specie, ad eccezione del Leccinum scabrum, è annerente al taglio ed alla cottura.

Al genere appartengono specie generalmente commestibili (ad eccezione del gambo molto fibroso, coriaceo e, quindi, indigesto, che non va mai consumato); nessuna specie tossica.

Prendono il nome per il prevalente habitat di crescita che li vede, principalmente, ma non esclusivamente, simbionti con specie arboree quali Quercus ilex (Leccio). Si deve a Pier Antonio Micheli (botanico e micologo italiano 1679-1737) il primo studio e l’identificazione di questo genere.

All’interno del Genere, le singole specie vengono posizionate, a seconda delle diverse caratteristiche macroscopiche, in Sezioni:

Sezione Scabra: basidiomi con carne biancastra, immutabile o a tratti arrossante, non ingrigente, non annerente, con tubuli e pori biancastri. 

Sezione Leccinum: basidiomi con carne biancastra, ingrigente o annerente, talvolta prima arrossante. Cappello in prevalenza di colore rossastro, rosso mattone, arancio. Tubuli e pori da biancastri a giallo.

Sezione Luteoscabra: basidiomi con carne da biancastra a giallognola, arrossante a toni più o meno violacei al taglio, poi ingrigente-annerente. Tubuli e pori giallastri.

Non potendo, per ovvii motivi collegati a problemi di spazio, trattare in questo contesto le numerose specie conosciute, ci limiteremo, solo a titolo informativo ed a completamento dell’argomento trattato, a descriverne  alcune.

Leccinum scabrum
Leccinum scabrum

Leccinum scabrum: (Porcinello grigio) capostipite della Sezione Scabrum è quello che maggiormente si avvicina, soprattutto per il colore della carne che rimane, sia al taglio che alla cottura, perfettamente bianca, senza assumere, come avviene per le altre specie, una colorazione grigio-nerastra, al più pregiato “Porcino” del Genere Boletus. Il cappello, di dimensioni variabili da 5 ai 15 cm. va da emisferico a convesso – campanulato, con superficie vellutata, opaca, secca, viscosa con l’umido, di colore bruno, ocra-fulvastro. Il gambo, cilindrico, allargato verso il basso, è totalmente ricoperto da scaglie appuntite inizialmente grigiastre, poi bruno-nerastre. E’ solito fruttificare, in simbiosi con Betulle, dalla fine dell’estate ad autunno inoltrato.

Leccinum aurantiacum
Leccinum aurantiacum

Leccinum aurantiacum: (porcinello rosso) inserito nella Sezione Leccinum ha cappello da subgloso ad emisferico-convesso con margine debordante (riferito alla cuticola che va oltre l’orlo del cappello) di colore rosso-arancio più o meno carico (da cui la denominazione di Porcinello rosso). Il gambo è ricoperto da squame fioccose inizialmente biancastre, poi bruno-rossastre. La carne, inizialmente bianca, vira rapidamente al viola-nerastro al taglio ed alla cottura. Cresce dall’estate all’autunno ed è spesso associato al Pioppo (Populus tremula).

Leccinum lepidum
Leccinum lepidum

Leccinum lepidum: (dal latino lepidum = piacevole per via dell’aspetto) conosciuto anche come “Porcinello d’inverno” per il periodo di fruttificazione che, dall’autunno, si spinge fino ad inverno inoltrato, è tipicamente simbionte con il Leccio (Quercus ilex), ha cappello da emisferico a convesso allargato con superficie liscia e glabra, spesso rugoso-bozzoluta, di aspetto untuoso, di colore bruno-giallastro dalle tonalità più o meno cariche. Ha tubuli lunghi con pori piccoli, tondi, giallognoli, viranti all’ocra-brunastro alla pressione. La carne biancastra vira, al taglio, inizialmente al rosa ingrigendo, poi, con sfumature bruno-violacee. Annerente alla cottura. Per la sue caratteristiche macroscopiche ed il colore giallastro del gambo e dei pori è facilmente confondibile con i Boleti appartenenti alla sezione Appendiculati e/o Fragrantes, in maniera particolare con Boletus impolitus, che sono caratterizzati da gambo e pori verosimilmente di analogo colore.

Vogliamo concludere, precisando che i carpofori appartenenti al Genere Leccinum si diversificano da quelli appartenenti al Genere Boletus presentando, questi ultimi, gambo tipicamente panciuto, ornato da un reticolo più o meno fitto o da punteggiatura o completamente privo di ornamentazione (liscio), tubuli di media lunghezza (sempre meno lunghi di quelli dei Leccini) e carne bianca o gialla, immutabile al taglio o virante, mai annerente al taglio e/o alla cottura.

Vogliamo, memori di quanto riportato nella parte introduttiva, diffidare i nostri lettori dall’effettuare acquisti di prodotti fungini da venditori occasionali o anche venditori rionali o a posto fisso se espongono prodotti privi della prevista certificazione rilasciata dagli ispettorati micologici riportante la denominazione della specie e la commestibilità della stessa, previo accertamento della data di rilascio della stessa certificazione che deve essere recente, non oltre un giorno antecedente la data di acquisto.

Bibliografia essenziale:

  • R. Galli “I Boleti” Ed. Micologica
  • F. Foiera, E. Lazzarini, M. Snalb, O. Tani “Funghi Boleti” Ed. Calderini-edagricole
  • F. Boccardo, M. Traverso, A. Vizzini, M. Zotti “Funghi d’Italia” Ed. Zanichelli

Foto:

Archivio mico-fotografico del micologo Franco Mondello

Pubblicato su: “I Sapori del Mio Sud” – Anno XI n. 118 maggio 2015

I funghi primaverili

I rigori di quest’ultimo rigido e lungo inverno restano ormai alle nostre spalle e la bentornata primavera li spinge sempre più lontani con il tepore delle sue giornate. La natura torna a vivere in tutte le sue espressioni e, con il ritorno della primavera, ritorna, in quanti come noi amano la vita all’aria aperta, il desiderio di fare lunghe e salutari passeggiate nei boschi non disdegnando, all’occorrenza, incontri ben predisponenti nei confronti dei prodotti spontanei della natura, tra i quali, ovviamente, non possono mancare quei curiosi esserini che, posizionati in botanica nel “Regno dei Fungi”, incominciano a fare le loro prime apparizioni. Ed ecco che micologi, micofili o, ancor più, semplici micofagi, tirata fuori dal ripostiglio l’attrezzatura necessaria (scarponi, bastone e cestino), a suo tempo riposta per la diminuita fruttificazione fungina dovuta al periodo invernale, meno propizio alla raccolta, si riversano nei boschi nella consapevolezza che la fruttificazione primaverile sta per iniziare.

Pur se poco conosciute alla stragrande maggioranza dei raccoglitori, le specie fungine che fanno la loro apparizione nel periodo primaverile sono diverse e ben si prestano, per il loro sapore e per la loro versatilità, ad usi commestibili. In questa nostra “dissertazione micologica” intendiamo presentare alcune specie tipiche del periodo che meritano, senz’altro, di essere conosciute.

Morchella conica

Morchella conica
Morchella conica

La Morchella: ascomicete (fungo le cui spore si sviluppano all’interno di cellule denominate aschi) appartenente all’Ordine delle Pezizales, famiglia Morchellaceae, Genere Morchella, è certamente il fungo principe del periodo primaverile ed ha il privilegio di essere il primo a porgere il suo saluto alla primavera. Ha caratteristiche morfocromatiche molto variabili da una specie all’altra e spesso all’interno della stessa specie, presentandosi in forma arrotondata, conica, ovoidale e con colori che variano dal giallo-chiaro al giallo-ocra; dal grigio-piombo al grigio-nerastro, naturalmente influenzato dalla tipicità del terreno di crescita e dalla specie arborea cui si accompagna. Il cappello, nella sua strana forma, denominato “mitra”, è di consistenza rigida e composto da una moltitudine di alveoli irregolari tanto da ricordare la conformazione strutturale di un nido d’api o di una spugna e, per questa sua caratteristica, conosciuto, in molte zone italiane, con il nome volgare di “spugnola”. Il gambo di colore biancastro, giallino, ha delle costolature verticali, ha la classica forma cilindrica ed è cavo all’interno. Si accompagna, in simbiosi, a culture arboree, prediligendo boschi di frassino, olmi, pino e larice anche se sono stati segnalati ritrovamenti su pascoli ed in assenza di specie arboree simbionti.

Morchella esculenta

Morchella esculenta
Morchella esculenta

Molto conosciuto, ricercato ed apprezzato nelle zone del settentrione d’Italia, è praticamente sconosciuto al sud dove cresce indisturbato nel suo habitat preferito senza essere oggetto di raccolte indiscriminate. E’ considerato un ottimo commestibile ma, per il suo corretto consumo, al fine di eliminare le tossine in esso contenute, deve essere sottoposto a precottura lasciandolo bollire per circa 15 – 20 minuti ed eliminando, prima del suo consumo, l’acqua di bollitura. Il consumo da crudo, o dopo cottura non corretta, è causa di sindrome emolitica. Il Genere di appartenenza annovera diverse specie come: Morchella conica, Morchella Esculenta, Morchella semilibera, con le diverse varietà infraspecifiche che caratterizzano ogni singola specie.

La Gyromitra: posizionata, nella sistematica fungina, nella Classe degli Ascomycetes, appartiene all’Ordine delle Pezizales, Famiglia Helvellaceae, Genere Gyromitra. Per la sua spiccata somiglianza con gli ascomi appartenti al Genere Morchella, con i quali spesso è confusa con drastiche conseguenze, viene comunemente chiamata “falsa spugnola” o “falsa morchella”. Ha mitra tondeggiante, subglobosa, con costolature sinuose molto irregolari, ricca di anse che gli conferiscono un aspetto “cerebriforme”. Il colore varia dal rosso-ruggine al bruno, bruno-scuro. Il margine mitrale è aderente al gambo in maniera irregolare e non continua.

Gyromitra esculenta

Gyromitra esculenta
Gyromitra esculenta

Il gambo, cavo all’interno, di colore biancastro-avorio con sfocature color ruggine, è tozzo ed ingrossato alla base, spesso viene completamente coperto dalle volute del cappello; presenta, per tutta la sua lunghezza, delle costolature verticali.

Le diverse specie appartenenti al genere: G. esculenta, G. gigas, G. brunnea, G. infula (quest’ultima a crescita autunnale) ecc. sono responsabili della sindrome gyromitrica dovuta alla gyromitrina, una tossina presente in tutte le specie appartenenti al genere che, anche se in passato sono state considerate commestibili, si sono rese responsabili di gravi avvelenamenti anche con sopravvenuti decessi. Il consumo delle varie specie appartenenti al genere deve essere assolutamente evitato.

La somiglianza delle varie specie con le specie appartenenti al Genere Morchella ha causato, e continua a causare, confusione nel riconoscimento delle stesse con gravi conseguenze per i consumatori. E’ opportuno, come più volte abbiamo inteso sottolineare, di diffidare del giudizio dei “così detti esperti” e di rivolgersi, per l’acquisizione del giudizio di commestibilità, a micologi professionisti. In merito alla possibilità di confusione delle specie, ci piace fare riferimento alla trasmissione televisiva “La prova del cuoco” del 22 maggio 2014, durante la quale sono state cucinate, in diretta, degli esemplari velenosi di Gyromitra esculenta (falsa spugnola) ritenendo fossero esemplari di Morchella esculenta (spugnola), fortunatamente, come sempre avviene a trasmissione ultimata, non consumati dai presenti. La pericolosità di quanto accaduto è stata formalmente segnalata agli organi RAI dal Centro Antiveleni di Milano, dall’Associazione Micologica Bresadola Sede Nazionale e dal Centro Studi Micologici AMB. Quanto accaduto è stato reso noto da numerose testate giornalistiche nazionali ed ampiamente diffuso sul Web.

Calocybe gambosa

Calocybe gambosa
Calocybe gambosa

Calocybe gambosa: basidiomicete (fungo le cui spore si sviluppano all’esterno di cellule claviformi denominate basidi con proiezioni apicali (sterigmi) sulle quali si formano le spore) appartenente all’Ordine delle Agaricales, Famiglia Tricholomataceae, Genere Calocybe. E’ caratterizzato da un cappello di diametro variabile tra i 5 e i 12 cm. Inizialmente emisferico, poi convesso-pianeggiante, colore variabile da crema-biancastro a ocra-giallastro a giallo più o meno inteso. Nella zona imeniale sono presenti lamelle molto fitte, intercalate da lamellule, smarginate, non aderenti al gambo che presenta la classica forma cilindrica, a volte leggermente clavato; di colore bianco, con leggere sfumature ocra in prossimità della base, pruinoso specialmente nella zona apicale. Ha odore caratteristico di farina fresca. E’ un fungo particolarmente precoce, conosciuto anche con il nome comune di “Fungo di San Giorgio” per la sua tendenza a spuntare in prossimità della ricorrenza di San Giorgio (24 aprile). Cresce, da saprofita, formando lunghe file o cerchi più o meno regolari, prediligendo habitat con piante spinose come le rosacee in generale o il Prugnolo (Prunus spinosa) derivando, da quest’ultimo, un ulteriore nome comune – appunto Prugnolo. E’ solito riprodursi nelle stesse stazioni di crescita ed anche se difficile localizzarlo, in quanto sempre ricoperto da rovi, una volta individuato rimarrà ad aspettarvi nello stesso posto, puntuale ogni anno, ad ogni nuova fioritura. E’ considerato, da molti, ottimo commestibile ed è molto ricercato in numerose regioni del settentrione.

Ovviamente le specie di cui ci siamo occupati non sono le sole a fruttificare nel periodo primaverile ma, non potendo occupare altre pagine nel Magazine che gentilmente ci ospita, non possiamo trattarle tutte. In ogni caso, ci fa piacere ricordare che tra le altre, in questo periodo dell’anno sono solite fare la loro apparizione anche: Hygrophorus marzuolus (marzuolo dormiente); Marasmius oreades (gambe secche); Agrocybe aegerita (piopparello); Amanita verna (tignosa di primavera) fungo velenoso-mortale spesso confuso con innocui prataioli e causa di numerosi decessi. Su queste ultime specie e su altre ancora, tipiche del periodo primaverile, ci soffermeremo in altra occasione.

Utilizzo in Cucina

Bruschetta con crema di prugnoli

(ricetta suggerita dall’Ing. Francesco Somma)

Per 4 persone occorrono circa mezzo chilo di Calocybe gambosa qualche cipollina, uno spicchio d’aglio, un cucchiaio di farina, 100 gr. di burro, mezzo bicchiere di brandy, un bicchiere di vino bianco, parmigiano grattugiato, sale, pepe, e brodo di carne. Soffriggere l’aglio e le cipolline tritate finemente in buona parte di burro, poi aggiungere i funghi (Calocybe gambosa) tagliati a fettine sottili e lasciarli asciugare nella loro acqua di cottura. Aggiungere la farina stemperata nel vino bianco e condire con  pepe, lasciare sul fuoco pochi minuti e poi frullare il tutto. Infine cuocere ancora a fuoco lento per circa venti minuti diluendo a poco a poco con il brodo. Aggiungere, a fine cottura, brandy e parmigiano, salare.

Servire bollente, con crostini o spalmare sul pane abbrustolito.  

Pubblicato su:

 “Moleskine” – Anno 8 n. 3 marzo 2015

 “I Sapori del Mio Sud” – Anno XI n. 117 aprile 2015

Amanita ponderosa un fungo rarissimo ritrovato sui Peloritani

Abbiamo più volte affermato, nelle nostre precedenti “dissertazioni  micologiche”, che “l’Andar per Funghi” anche nel periodo invernale o nelle stagioni meno propizie alla raccolta, può essere, oltre che una sana e salutare passeggiata a contatto con la natura, anche fonte di piacevoli sorprese, specie per quanti, come noi, sono soliti recarsi nei boschi non per soddisfare desideri di natura gastronomica, ma per dedicarsi alla ricerca di macromiceti interessanti dal punto di vista micologico ed al fine di approfondire le proprie conoscenze nella determinazione delle varie specie fungine.

Ed è proprio per confermare questo assunto che, nei giorni scorsi (esattamente il 3 marzo), ci siamo recati (Angelo Miceli e Franco Mondello) nel vicino bosco della Candelara, sui Monti Peloritani, a ridosso della città di Messina, in una zona che si pone, per la sua altitudine sul mare, da circa 250 – a 400 metri.

E’ stata una mattinata ricca di “incontri”: dopo aver ritrovato diversi esemplari fungini come Amanita junquillea var. vernalis,  Helvella lacunosa, Cantharellus cibarius, Lactarius deliciosus ed alcuni esemplari del Genere Collybia, sul finire della mattinata, stanchi ma soddisfatti dei ritrovamenti effettuati, sulla strada del ritorno, proprio lì, quasi in mezzo al sentiero, su una strada in terra battuta, percorribile anche da mezzi motorizzati, un piccolo anfratto con una piccolissima sporgenza tra le crepe del terreno duro ed asciutto, attira la nostra attenzione. Con molta delicatezza, per non danneggiare il “nostro ritrovamento”, creiamo un po’ di spazio attorno all’esemplare e documentiamo, fotograficamente, lo stesso ed i luoghi circostanti. Con il cuore in gola per l’emozione, anche se non completamente certi, avanziamo una certa ipotesi e rimaniamo in attesa di conferma, liberiamo l’esemplare che si presenta quasi completamente avvolto, tranne una piccolissima porzione del cappello, in un velo generale consistente, membranoso, bianco. E’ necessario effettuare una sezione del fungo per accertarsi della presenza di gambo e lamelle ed esaminarne le caratteristiche salienti utili alla sua determinazione. Quanto emerso non lascia dubbi (anche se, successivamente, in laboratorio, si procede ad un esame microscopico per averne una conferma assoluta): Amanita ponderosa Malençon & R. Heim un fungo rarissimo sul territorio nazionale del quale, alla data attuale, si conoscono sporadici luoghi di ritrovamento. Basti pensare che il Prof. Roberto Galli, micologo di fama internazionale, nella sua monografia “Le Amanite” – Edinatura,  Milano 2001 – parlando della specie, precisa di non averla mai esaminata personalmente e fa riferimento, per completare l’argomento, a quanto desunto dalla letteratura esistente in materia. E’ opportuno precisare che il ritrovamento e la determinazione di altri esemplari della specie in questione sono stati segnali nel 2005 dal micologo messinese Franco Mondello il quale interessò, all’epoca, lo stesso Prof. Roberto Galli il quale, espressamente invitato, ha onorato la micologia messinese della sua presenza, portandosi, accompagnato da Franco Mondello, nei boschi di Ficarra, in provincia di Messina dove ha confermato la presenza di questa rarissima specie.

Amanita ponderosa sui Peloritani
Amanita ponderosa Peloritani

Amanita ponderosa: carpoforo semiipogeo la cui crescita avviene, generalmente, nel periodo marzo-aprile. E’ solito fruttificare in terreni aridi e duri, anche al centro o ai bordi di strade in terra battuta. Predilige habitat mediterraneo con presenza di querce e cisto (Cystus salvifolius) con cui potrebbe essere simbionte. Nella zona dell’attuale ritrovamento oltre a querce e cisto sono presenti pini domestici (Pinus pinea). Solitamente rimane semi coperto tra gli anfratti del terreno dal quale difficilmente emerge in maniera totale. La sua presenza viene segnalata dalle crepe che il terreno forma a seguito della sua spinta in fase di crescita. Ha cappello emisferico, poi convesso, con bordo liscio ricoperto, da giovane, da residui fioccosi. Cuticola liscia, asciutta, di colore inizialmente bianco che tende, con la sua crescita, a divenire ocra, poi rosa-rossastro ed infine rosso mattone. E’ munito di anello presto fugace ed a volte ridotto a residui fioccosi sul gambo e di volva membranosa, ampia e alta, inguainante, inizialmente bianca poi ocra ed infine bruno-rossastra. Molto diffuso nelle regioni Iberiche ove è considerato un buon commestibile. E’ conosciuto anche come “falsa patata” per il suo particolare sapore che riconduce, appunto, al sapore delle patate.

Ritrovamento Amanita ponderosa

Luogo ritrovamento: Monti Peloritani – Bosco della Candelara (Messina) mt. 300 circa s.l.m. Vegetazione: Querce (Quercus pubescens e Quercus ilex); Cisto (Cistus salvifolius); Pini (Pinus pinaster). Terreno asciutto, arido, duro. Ritrovato al margine di un sentiero in terra battuta percorribile anche da mezzi meccanici. Altri ritrovamenti, sempre sporadici, oltre quelli indicati, sono stati segnalati in Sardegna.

Pubblicato su:  “I Sapori del mio Sud” – Anno XI  n. 119 Giugno 2015

I funghi del tardo autunno e dell’inverno

E’ profondamente radicata, anche tra quanti sono soliti fare uso dei funghi quali prelibatezze gastronomiche e tra quanti altri assumono come verità le tante credenze sui funghi che solitamente vengono tramandate da padre in figlio, la convinzione che questi prelibati e ricercati “abitanti dei boschi” facciano la loro apparizione esclusivamente nel periodo autunnale ed in coincidenza con l’aumento dell’umidità stagionale dovuta alle tipiche precipitazioni atmosferiche del periodo.

Riteniamo, in merito, di dover dissentire da tale errata e fuorviante convinzione in quanto i funghi sono soliti nascere, crescere e riprodursi durante l’intero anno solare privilegiando, a seconda delle varie specie, il riprodursi in una o in altra delle quattro stagioni; rimanendo, ovviamente, la stagione autunnale quella durante la quale, in considerazione delle più idonee condizioni atmosferiche, legate alla temperatura ed all’umidità ambientale, si ha la maggiore fruttificazione fungina con la crescita di numerose specie, molte delle quali, come gli ovoli ed i porcini, considerate specie di ottima commestibilità e, per tale motivo, ricercate dai numerosi cercatori stagionali.

Per quanto sopra, ci sentiamo di affermare che i “cercatori di funghi”, specie quanti esulando dal richiamo gastronomico delle  specie commestibili, attratti da questi soprattutto per motivi di studio ed ai fini di approfondire le proprie conoscenze in materia micologica, assumendo la qualifica di “micologi” o, più semplicemente, di “micofili”, sono perfettamente consci che recarsi nei boschi nel periodo tardo autunnale, o anche nel periodo invernale, può essere motivo di interessanti incontri con specie fungine, anche commestibili, che sono solite fruttificare in questi periodi dell’anno.

Non vogliamo dilungarci, per motivi di spazio, tra le pagine di “I Sapori del mio Sud” che gentilmente ci ospita, soffermandoci sulle numerosissime specie che sono solite fruttificare nel primo periodo del tardo autunno ed inizio inverno, desideriamo solo attirare l’attenzione dei lettori su alcune specie che, sui nostri monti Peloritani e Nebrodi, fanno la loro apparizione proprio in questo periodo. Tra le tante specie, prima di passare alla trattazione specifica, desideriamo ricordare le specie appartenenti ai generi: Lactarius,  Tricholoma,  Lepista,  Clitocybe, Craterellus, Leccinum, Hydnum……

Per ovvi motivi, non potendo il nostro inciso sostituirsi ad un trattato di micologia, riteniamo opportuno soffermarci solo su qualche specie del genere Tricholoma, appartenente alla famiglia delle Tricholomataceae, inserita nel più vasto ordine delle Agaricales. A tale genere appartengono basidiomiceti generalmente carnosi con cappello viscido o asciutto, liscio, caratterizzato dalla presenza di fibrille radiali. Le caratteristiche distintive del genere si trovano, in particolare, nella conformazione delle lamelle che presentano un “dentino ad uncino” all’inserzione sul gambo. A questo genere appartengono specie commestibili di buona qualità e specie tossiche responsabili di gravi sindromi quali la sindrome rabdomiolitica e quella resinoide.

Tricholoma portentosum
Tricholoma portentosum – Foto: F.Mondello

Tricholoma portentosum:  (dal latino portentosus = robusto, per il suo aspetto) tipico dei boschi di aghifoglie ed anche di latifoglie. Presenta, sul cappello con superficie un pò vischiosa a tempo umido ma presto asciutta, liscia, di colore grigio-scura con sfumature giallastre, delle fibrille innate nerastre che si estendono radialmente ed un umbone ottuso che ne facilitano il riconoscimento. Le lamelle, piuttosto rade, biancastre, ed a maturità grigio-bruno, presentano delle sfumature gialline più o meno evidenti che si rilevano anche sulla parte alta del gambo che si presenta, nella sua totalità, di colore bianco. E’ considerato un buon commestibile sia per il consumo da fresco sia per essere conservato sott’olio unitamente a tocchetti di cipolla che si uniscono in un sapore particolarmente delicato ed apprezzabile al palato.

Tricholoma equestre
Tricholoma equestre – Foto: F.Mondello

Tricholoma equestre:  è un fungo tipico del tardo periodo autunnale e dell’inizio dell’inverno, cresce sia sotto aghifoglie che latifoglie. Dal portamento robusto, si caratterizza per un colore giallo oro molto intenso che interessa sia il cappello e le lamelle sottostanti sia il gambo. Conosciuto ed apprezzato da sempre come buon commestibile, è stato accertato, circa 15 anni addietro, che si è reso responsabile di intossicazioni di grave entità, anche mortali (sindrome rabdomiolitica), dopo il consumo abbondante ed in pasti ravvicinati. Gli episodi mortali si sono verificati in una circoscritta zona della costa atlantica della Francia. Il consumo e la raccolta di questa specie sono stati vietati, per disposizione di legge, su tutto il territorio italiano (Ordinanza Ministero della Salute del 20 agosto 2002).

Tricholoma terreum
Tricholoma terreum – Foto: F.Mondello

Tricholoma terreum:  (dal latino terreus = di terra, per il suo colore) basidioma di piccole dimensioni, cresce in simbiosi nei boschi di conifere (pino o abete) e la sua crescita si protrae sino alle prime gelate. E’ facilmente riconoscibile per le piccole dimensioni e per il colore del cappello grigio fumo, quasi nero, grigio-topo, per il quale è comunemente conosciuto con il nome di “moretta”. E’ uno dei funghi più ricercati ai fini gastronomici, specie nelle zone del nord Italia. In merito alla sua commestibilità è opportuno precisare che, a seguito di recenti studi, alcuni ricercatori cinesi hanno individuato, in questo fungo, le tossine che causano rabdomiolisi (le stesse tossine contenute nel Tricholoma equestre), la notizia, recentissima, risale al mese di giugno 2014. Sono in corso ulteriori ricerche al fine di stabilire, con esattezza, se la quantità di tossina contenuta nei macromiceti può essere dannosa o meno per la salute umana. Si consiglia, alla luce di quanto recentemente emerso, di usare una maggiore cautela nel consumo di tale specie fungina o, meglio ancora, non consumarla fino al completamento delle ricerche.

Tricholoma saponaceum
Tricholoma saponaceum – Foto: F.Mondello

Tricholoma saponaceum:  (dal latino saponaceus = saponaceo, per il tipico odore di sapone) specie multicromatica per la variabilità del colore del cappello che passa dal più tipico ocra-grigiastro, grigio, grigio-olivastro al bruno-nerastro con sfumature bluastre, piombo, oppure ancora verdastro, o anche decolorato fin quasi al bianco. Fa molto piacere incontrarlo nei boschi, anche se non commestibile, soprattutto per il suoi stupefacenti cromatismi e per la taglia che, in casi particolari, può raggiungere notevoli dimensioni. Si riconosce per il tipico odore di sapone e per il viraggio della carne al rosa nella parte bassa del gambo. E’ molto diffuso nei boschi di latifoglie ed aghifoglie. Cresce dall’estate sino all’inizio dell’inverno. Tossico, responsabile di sindrome gastroenterica.

E’ opportuno precisare, prima di concludere, che le specie di cui ci siamo occupati, costituisco solo una minima parte delle numerose altre specie fungine appartenenti alla vasta famiglia delle Tricholomataceae.

Considerato che lo studio della micologia è in continua evoluzione e che spesso, specie ritenute commestibili vengono identificate come responsabili di ricoveri ospedalieri e, ancor peggio, come nel caso del Tricholoma equestre, responsabili di decessi, è opportuno – desideriamo ripetere il concetto ancora una volta (vedi “I Sapori del mio Sud” n. 114 gennaio 2015) – prima di consumare funghi di sottoporli all’esame di un micologo professionista il quale, oltre ad avere una competenza specifica in merito al riconoscimento ed alla determinazione delle varie specie è, per il costante aggiornamento cui si deve sottoporre, a conoscenza delle ultime novità nel settore della micologia.

Pubblicato su “I sapori del mio sud” n. 116 marzo 2015.
Note: le foto a corredo dell’articolo sono state gentilmente fornite dal micologo Franco Mondello (che si ringrazia) e fanno parte della sua galleria mico-fotografica personale.

Andar per funghi: Amanita caesarea

Conosciuto fin dall’antichità e particolarmente apprezzato per il suo sapore eccellente e per il delicato profumo, è uno dei funghi commestibili più ricercati dai numerosi raccoglitori che, purtroppo, raccogliendolo in maniera indiscriminata già dai primi stadi di crescita (ancora a forma di ovolo), con la presunzione di essere in grado di riconoscerlo e distinguerlo dalle specie velenose anche se non presenta ancora, in maniera netta, i suoi caratteri distintivi, causano un enorme danno all’ecologia boschiva  mettendo a rischio la sua riproduzione e, in caso di confusione con la velenosa e mortale Amanita phalloides (non di rado avvenuta nel caso di raccolta allo stadio di ovolo), anche la vita dei consumatori.

Conosciuto anche come “ovolo buono”, fu molto apprezzato sulla tavola degli imperatori romani tanto che il nome “caesarea” gli venne attribuito perché ritenuto, per il suo particolare e delicato sapore, “degno dei cesari”.

Nella sistematica fungina appartiene al Genere Amanita e viene inserito nella Famiglia delle Amanitaceae, Ordine Agaricales.

Come tutti i funghi appartenenti al Genere Amanita, presenta, a maturazione, caratteristiche morfologiche ben differenziate che consentono facilmente sia il riconoscimento del genere sia, come nello specifico caso, il riconoscimento della specie.

Al Genere Amanita appartiene un consistente numero di funghi superiori, terricoli, simbionti (con eccezione di Amanita vittadini che, invece, è saprofita), di dimensioni medie o, a volte, anche notevoli, formati da un cappello ed un gambo.

La parte superiore del cappello, in alcune specie, è caratterizzata dalla presenza di ornamentazioni differenziate, residui del velo generale, che diversificano le singole specie; nella parte inferiore del cappello è situata la zona fertile del fungo (imenoforo), formata da lamelle ove si formano e maturano le spore (cellule riproduttive) che, a maturazione del carpoforo, si disperdono nell’ambiente consentendone la riproduzione.

Il gambo è caratterizzato dalla presenza di un anello (residuo del velo parziale) posizionato nella parte superiore e da una volva (residuo del velo generale) che lo avvolge nella parte inferiore, differenziandosi, per la sua conformazione, struttura e consistenza, da una specie all’altra.

Allo stadio primordiale i carpofori appartenenti al Genere Amanita si presentano interamente avvolti da un velo generale di colore bianco-biancastro che attribuisce loro la caratteristica forma ad “uovo”, motivo per cui viene loro attribuita anche la denominazione di “ovolo”. In tale stadio è difficilissimo distinguere una specie dall’altra e non bisogna mai avere la presunzione, anche se esistono caratteri distintivi, di essere certi nella determinazione della specie. La normativa vigente in materia di raccolta funghi vieta, in maniera assoluta, la raccolta delle specie ancora allo stadio di ovolo.

Dopo questa premessa di carattere generale, ci occupiamo, ora, delle specifiche caratteristiche del nostro “protagonista”: l’Amanita caesarea.

Si presenta con un cappello di un bel colore rosso-arancio vivo, uniforme su tutta la superficie, nudo, privo di ornamentazioni o, a volte, parzialmente ricoperto da qualche lembo biancastro, residuo del velo generale. Il bordo del cappello presenta, sempre, una chiara e ben marcata striatura. Le lamelle, posizionate nella parte inferiore del cappello, sono libere al gambo, fitte ed intercalate da lamellule (struttura laminare meno lunga delle lamelle e tra di esse interposta), sempre di colore giallo-uovo, con filo leggermente denticolato.

Il gambo, a forma più o meno cilindrica, di colore giallo, presenta, nella parte superiore, un anello ampio e membranoso, striato nella zona a vista, di colore giallo. Nella parte inferiore è sempre presente una volva ampia e membranosa, residuo del velo generale, a forma di sacco, di colore inizialmente bianco candido, poi, a maturazione, di colore crema o beige chiaro.

Amanita muscaria
Amanita muscaria — Foto: F.Mondello

Rivolgendo la nostra attenzione, in fase di raccolta, alle caratteristiche sopra descritte e, in particolare al colore del gambo, delle lamelle e dell’anello, che si presentano sempre ed esclusivamente gialli, l’appartenenza di un carpoforo alla specie Amanita caesarea è sempre facilmente individuabile. Pur tuttavia, soprattutto per i meno esperti e per gli “esperti” presuntuosi, la specie è facilmente confondibile con specie tossiche o velenose come l’Amanita muscaria e la sua varietà aureola, l’Amanita crocea (commestibile dopo adeguata cottura) e la mortale Amanita phalloides, anche se quest’ultima, a maturazione, presenta caratteristiche morfologiche e cromatiche completamente diverse, ma molto similari se raccolta allo stadio di ovolo.

Amanita crocea
Amanita crocea — Foto: F.Mondello

In merito, senza addentrarci nelle varie problematiche che consentono la distinzione delle specie sopra menzionate, è opportuno precisare che l’Amanita muscaria, specie altamente tossica, può, in caso di pioggia, perdere le verruche bianche che ne ricoprono il cappello e presentarsi con un colore rosso simile a quello della Amanita caesarea e che l’Amanita aureola o l’Amanita crocea, seppur diverse, presentano un cappello di colore similare mentre, gambo e lamelle, per tali specie, sono sempre di colore bianco, quindi ben diverse da quelle dell’Amanita caesarea che sono sempre di colore giallo.

Un discorso a parte merita l’Amanita phalloides che, come precedentemente detto, presenta caratteristiche cromatiche molto differenti dall’Amanita caesarea, ma è spesso causa, come le statistiche ricordano, di decessi conseguenti alla sua confusione con Amanita caesarea quando viene raccolta allo stadio di ovolo.

Attenersi, in fase di raccolta, alla normativa vigente che vieta, in senso assoluto, la raccolta di carpofori allo stadio di ovolo per almeno due ottime ragioni, l’una di natura tossicologica, al fine di evitare confusione con specie tossiche o velenose, l’altra di natura ecologica al fine di consentire ai carpofori di effettuare, a maturazione, la sporulazione e di garantire così la riproduzione della specie.

Pur esistendo delle caratteristiche che consentono il riconoscimento dell’ovolo buono in forma chiusa dalle specie tossiche o velenose, è bene lasciare questa pratica solo agli esperti micologi professionisti e non fidarsi mai della capacità ed abilità di quanti ritengono di essere “esperti” basando le proprie conoscenze di raccolta e riconoscimento su quanto tramandato, in maniera empirica, da padre in figlio. 

In merito è sufficiente ricordare quanto è recentemente successo a Padova (autunno2014) dove in un supermercato erano stati posti in vendita delle Amanita caesarea allo stadio di ovolo con regolare certificazione rilasciata da un micologo. Solo un successivo più attento esame degli esemplari ha consentito di rilevare la presenza di alcuni ovoli di Amanita phalloides (velenoso-mortale) e di porre in essere i provvedimenti necessari. La notizia è stata riportata dal quotidiano locale “Il Mattino”. Non facciamo considerazioni in merito a quanto successo ma, se anche un micologo può sbagliare…….. è bene non fidarsi mai dei “così detti esperti”.

Sua Maestà il Porcine

Puntuali, con l’arrivo dell’autunno e delle prime piogge, i “funciari” (cercatori di funghi), si riversano, fin dalle prime luci dell’alba, nei boschi alla ricerca di quei curiosi “esserini” che, in questo periodo, popolano le aree boschive.

Da sempre apprezzati in cucina per il loro particolare sapore, i funghi catturano l’attenzione di quanti vogliono coniugare il piacere di una sana e salutare passeggiata nei boschi con l’appagamento dei sensi del gusto.

Le prede più ambite, ovviamente, ovuli e porcini! Attenti però al loro corretto riconoscimento, la possibilità di fare confusione tra le innumerevoli specie esistenti è sempre in agguato e può riservare, per i meno esperti, spiacevoli sorprese anche con conseguenze drastiche ed irreversibili.

“Re Porcino”, sovrano dei boschi e di tutte le tavole, nella sistematica micologica viene inserito nella Famiglia delle Boletaceae – Ordine delle Boletales – e, all’interno della famiglia di appartenenza, è identificato dal Genere Boletus.

I nomi scientifici dei funghi, come avviene per le piante in genere, vengono attribuiti secondo norme stabilite dal Codice Internazionale di Nomenclatura Botanica (ICBN).

L’attuale sistema di nomenclatura botanica si basa sul metodo binomiale che fa riferimento agli studi del botanico svedese Carl von Linné (italianizzato in Linneo, 1707-1778) che, nel XVIII secolo gettò le basi dell’attuale sistema di nomenclatura.

Gli studi furono approfonditi da Elias Magnus Fries (micologo svedese, 1794 – 1878) il quale ritenne opportuno sistemare le varie specie fungine all’interno di appositi settori, in considerazione degli aspetti comuni ai vari esemplari, suddividendoli in classi, ordini, famiglie e generi, dando origine, in tal modo, alle basi della moderna sistematica.

Il sistema binomiale prevede che ogni organismo vivente venga identificato da un doppio nome: il primo, generico, riferito al genere di appartenenza, il secondo, specifico, riferito alla specie. La combinazione di nome generico e specifico identifica la specie: esempio Boletus edulis (nome scientifico riferito al porcino). E’ opportuno precisare che il nome attribuito va sempre indicato in forma latina e con l’iniziale maiuscola per quanto riguarda l’indicazione del genere, mentre con l’iniziale minuscola per quanto riguarda l’indicazione della specie.

Fatta questa premessa, utile in senso generico ad avvicinarci al complesso sistema che regola il “Regno dei Fungi”, ci sembra opportuno, al fine di soddisfare le curiosità conoscitive del lettore, ed in considerazione del fatto che è proprio il “Porcino” il fungo che maggiormente catalizza l’attenzione e le curiosità conoscitive dell’uomo, soffermarci su questa specie.

Con il termine “porcino” si è soliti identificare, anche come denominazione merceologica, alcune specie di funghi appartenenti alla Sezione Edules del Genere Boletus. Nello specifico, per le particolari caratteristiche macro e microscopiche, nonché per la universale e riconosciuta bontà e versatilità del loro uso in cucina e come sancito dal DPR n. 376 del 14.7.1995, sono quattro le specie fungine che possono fregiarsi, a pieno titolo, di tale denominazione: Boletus edulis, Boletus aereus, Boletus pinophilus, Boletus aestivalis.

Tutte e quattro le specie, come già detto, appartengono alla Sezione Edules del Genere Boletus, sezione che comprende macromiceti caratterizzati da “carne bianca immutabile al taglio; pori fini bianchi poi olivastri immutabili alla pressione; stipite senza toni rossi, con reticolo” (F. Boccardo, M. Traverso, A. Vizzini, M. Zotti – Funghi d’Italia Ed- Zanichelli).

Boletus edulis
Boletus edulis — Foto: F.Mondello

Il più conosciuto è, senz’altro, il Boletus edulis, (edulis = commestibile), particolarmente apprezzato per il suo intenso sapore e per l’odore che lo rende il fungo più ricercato in assoluto. Presenta un cappello untuoso, emisferico, poi convesso, dal color nocciola più o meno intenso, da bianco-crema a varie gradazioni di bruno. L’imenoforo (parte inferiore del cappello) presenta tubuli lunghi, bianchi, poi giallognoli a maturità; pori bianchi, piccoli, concolori ai tubuli, immutabili al tocco. Il gambo, generalmente panciuto o sub cilindrico, varia da biancastro a nocciola più o meno scuro; è ornato da un reticolo bianco posizionato, generalmente, nella parte superiore.

E’ molto apprezzato in cucina e si presta ad essere cucinato in tutti i modi.

Boletus aerus
Boletus aerus — Foto: F.Mondello

Il Boletus aereus,  (dal latino = bronzo, per il colore del cappello), comunemente conosciuto come  “Bronzino” o “Porcino nero”, molto simile per taglia e conformazione macroscopica al precedente ed agli altri del gruppo, si differenzia per il colore del cappello bruno-nero, bronzato, spesso con chiazze più chiare di colore ocra o con riflessi ramati. Nella zona imeniale: tubuli bianchi, biancastri ed infine giallo-olivastri a maturazione. Pori piccoli, rotondi, a lungo bianchi poi giallo-verdastri a maturazione. Il gambo, ingrossato alla base si attenua verso l’alto; ricoperto da un fitto reticolo brunastro specialmente nella parte alta. Carne di colore bianco, immutabile al taglio.

In cucina c’è solo l’imbarazzo della scelta, visto che si adatta facilmente ad ogni tipo di preparazione.

Boletus pinophilus
Boletus pinophilus — Foto: F.Mondello

Il Boletus pinophilus, (per l’habitat privilegiato – generalmente sotto pino), conosciuto come “Porcino rosso” o “Porcino dei pini”. E’, tra i boleti, quello con la taglia più grande che si presenta decisamente massiccia. Cresce, come si desume dal suo nome, prevalentemente sotto pini ma si associa anche a diverse latifoglie come il faggio ed il castagno. Presenta una colorazione del cappello rosso-granato; rosso-vinoso piuttosto accentuata, che lo lascia facilmente distinguere dalle altre specie. Poco diffuso nei boschi del messinese è, invece, molto comune, apprezzato e ricercato nei boschi dell’Aspromonte e della Sila. Si presta ad essere cucinato in tutti i modi ed è particolarmente versatile alla conservazione sott’olio esaltando, con i suoi colori esuberanti, anche la bellezza dei vasetti di vetro.

Boletus aestivalis
Boletus aestivalis — Foto: A.Miceli

Il Boletus aestivalis, (porcino estivo, per il periodo di fruttificazione) è molto simile al Boletus edulis dal quale si differenzia per il cappello asciutto, finemente vellutato e per il gambo che presenta una colorazione che va dal beige chiaro al nocciola, non è mai bianco ed è ricoperto, per la quasi totalità, da un evidente reticolo. Per tale particolarità è anche conosciuto come “Boletus reticulatus”. Spesso, a tempo asciutto, essicca facilmente e forma sul cappello venature ed areole che lasciano intravedere il colore più chiaro della carne sottostante.

E’ considerato un ottimo commestibile e si presta ad essere preparato nelle modalità più varie.

Le specie di cui ci siamo occupati, possono essere agevolmente riconosciute senza pericolo di essere confuse con altri boleti. E’ sufficiente prestare attenzione ai caratteri ad esse comuni come la carne bianca ed immutabile al taglio che è tipica della sezione edules, ed i pori bianchi che mantengono, alla pressione, la colorazione originale senza assumere cambiamenti di colore. Caratteristiche che fanno la differenza con boleti appartenenti ad altre   sezioni (Appendiculati; Fragrantes; Luridus) che, invece, hanno la carne giallina che reagisce al taglio virando verso un colore azzurrognolo-verdastro, e sono caratterizzati dalla presenza di pori gialli o rossi.

Con tali ultime caratteristiche troviamo un’infinità di specie distinguibili una dall’altra per la presenza di piccoli e minuti particolari, presentando difficoltà nella loro determinazione che deve essere affidata, esclusivamente, a chi è professionalmente competente.

Unica eccezione a quanto sopra è rappresentata dal Tylopilus felleus che somiglia, da giovane, al Boletus aestivalis e che, a maturità, si differenzia da questo per i pori leggermente rosati. Ha un sapore talmente amaro che, se cucinato assieme ad altri funghi, è sufficiente un solo esemplare per rendere immangiabile un intero raccolto di porcini. 

Desideriamo, prima di congedarci, lanciare un appello che vuole essere, in ogni caso, un consiglio ed un monito utile a chi si improvvisa ricercatore o, più semplicemente, consumatore di funghi: consumate solo funghi della cui commestibilità siete certi, fidatevi esclusivamente del giudizio di commestibilità espresso da un “micologo” professionista; non accettate funghi in regalo né regalatene se non preventivamente controllati e certificati; diffidate sempre del parere dei così detti “esperti”.

Pubblicato su “Moleskine” Anno 7 n. 10 Ottobre 2014
Pubblicato su “I Sapori del Mio Sud” n. 114 gennaio 2015