Quanto siamo consapevoli della nostra totale dipendenza dal mondo vegetale?

In alcune note apparse su questo stesso sito, ogni volta che si è offerta l’occasione, ho fatto accenno al rapporto che intercorre tra noi umani e le piante, evidenziando anche il nesso causale e temporale. In questa sede mi propongo di ritornare sul tema in forma più ampia ed organica, sia pure nei limiti che mi sono imposti onde non appesantire più di tanto la lettura.

Per introdurre l’argomento, riformulo le domande tante volte rivolte alle scolaresche che ho frequentato molti anni fa: “Cosa in concreto ci offrono le piante”? “Potremmo vivere senza di esse”?

Ricordo che i ragazzi interpellati si sforzavano di elencare i prodotti e i benefici singoli avuti in dono dal mondo vegetale: ossigeno, frutta, verdura, legno, difesa idrogeologica e poco altro. Al termine del dibattito, tutti insieme si conveniva che la risposta sarebbe potuta essere molto più semplice e concisa, del tipo: “Le piante ci mettono a disposizione tutto quanto ci serve per vivere e condurre la vita che facciamo: respirare, nutrirci, vestirci, curarci, riscaldarci, costruire ripari, ricavare suppellettili, scrivere su carta, andare in macchina, solcare mari e cieli, usare prodotti di bellezza”. 

Esaminiamo in dettaglio le voci principali di cui sopra, seguendo una certa scala gerarchica, cominciando dall’ossigeno che respiriamo (gas presente nell’aria nella misura del 21% circa), senza il quale in tutti gli esseri animali, noi compresi, sopraggiunge la morte in pochi minuti soltanto (si stima che, mediamente, si possa sopravvivere circa un mese senza toccare cibo, una decina di giorni senza bere e solo 3-5 minuti senza inalare ossigeno). Ebbene, secondo le ultime stime, in assenza di organismi capaci di fotosintesi, tale elemento sarebbe destinato ad esaurirsi sull’intero pianeta nello spazio di 10-20 anni, per effetto dei processi di ossidazione che incessantemente avvengono in natura (ossidazione = combinazione durevole dell’ossigeno con altri elementi minerali e con sostanze organiche). 

Quante volte abbiamo sentito dire che le foreste, e in particolare quelle equatoriali, sono il polmone della Terra, da preservare quindi con cura per la nostra stessa sopravvivenza? Vero, ma è bene precisare che ciò vale per il 56% circa dell’ossigeno terrestre, in quanto la restante parte (escluse altre fonti trascurabili) proviene dagli oceani, grazie all’attività di organismi microscopici con capacità fotosintetiche, presenti in miliardi di esemplari per ogni metro cubo di acqua salata (alghe e cianobatteri, il così detto “fitoplancton”). Ecco, dunque, un ulteriore motivo per proteggere i nostri mari da tutte le forme di aggressione giornalmente denunciate.

Sul campo alimentare è presto detto: tutto ciò che ingeriamo giornalmente, da quando sorbiamo la prima tazza di caffè al mattino per diventare “tonici”, a quando assumiamo la sera l’infuso di camomilla per conciliare il sonno – passando per colazione, pranzo, cena e spuntini vari – direttamente o indirettamente proviene dalle piante. Dalle quali, per citare gli alimenti più comuni, ricaviamo pane, pasta, riso, patate, legumi, frutta, verdure, aromi vari. Ma anche olio, vino, birra, zucchero, cioccolato, liquori, confetture e quant’altro si ottiene, con opportuni procedimenti, partendo da piante intere o porzioni di esse, quali radici, cortecce, foglie, fiori, frutti, semi.

Benché a prima vista non sembri, al mondo vegetale rinviano pure i prodotti d’origine animale (latte, carne, burro, formaggi, uova, miele), quando si consideri che i soggetti di riferimento si nutrono anch’essi di piante. Il caso dei carnivori è solo un’eccezione apparente, poiché il primo anello della catena alimentare è sempre rappresentato dai “produttori”, cioè organismi capaci di sintetizzare materia organica. 

A rigore, dal novero degli alimenti d’origine vegetale dovrebbero restare esclusi l’acqua di fonte e il sale da condimento. Se non fosse che anch’essi, in casi particolari, sono ricavabili dalle piante. Come avviene, ad esempio, nelle zone tropicali, utilizzando le noci di cocco ancora acerbe o i cactus giganti dei deserti, equiparati a vere e proprie cisterne.

Per ciò che riguarda il sale, poi, ricordo che certe popolazioni, per mancanza d’acqua marina o di cave apposite, hanno supplito in passato mangiando carne e pesce in abbondanza (ricadendo quindi nelle fattispecie già contemplate) e perfino filtrando le ceneri di piante alofile appositamente bruciate.

A proposito delle piante alimentari, è interessante osservare che, delle quasi 400.000 specie vascolari finora censite sul pianeta, di cui 30.000 circa commestibili, soltanto un paio di centinaia sono in atto oggetto di attiva coltivazione per la produzione di cibo. Di esse una trentina appena sono da considerare fonte primaria di nutrienti e solo 4 fondamentali per l’alimentazione umana: canna da zucchero, frumento, riso e mais, le quali assicurano insieme oltre il 50% delle calorie necessarie al sostentamento della popolazione mondiale. Chi mai avrebbe potuto immaginare 10-11 mila anni fa, quando fu “inventata” l’agricoltura, che pianticelle così modeste, quasi insignificanti singolarmente prese, avrebbero finito per assurgere a tale importanza?

Singolare appare anche che nessuna delle 4 specie in argomento risulti “addomesticata” in epoca storica, sebbene tutte siano state migliorate a tal punto che i nostri progenitori avrebbero difficoltà a riconoscerle. 

La storia del frumento, in particolare, si presta egregiamente a far comprendere come il corso della nostra civiltà sia affidato spesso a fatti in apparenza banali, ma dagli sviluppi inimmaginabili. 

Bisogna, dunque, sapere che il grano è diventato il cereale più popolare del pianeta in quanto ricco di una proteina, il glutine, che all’impasto di farina conferisce quelle caratteristiche di viscosità ed elasticità che ne consentono i molteplici usi a tutti noti e in particolare la panificazione: cosa del tutto impossibile, com’è risaputo, con riso e granturco. In realtà i primi frumenti coltivati non possedevano affatto le caratteristiche attuali: avevano poco glutine, cariossidi tenacemente rivestite dal caratteristico tegumento e spighe che si disarticolavano con facilità. È stato grazie ad incroci con altre graminacee spontanee che si è potuto aumentare il loro contenuto in glutine, rendere più stabile la spiga e conferire alla specie particolare resistenza nei confronti delle avversità ambientali. Il frumento, in tal modo, ha potuto essere coltivato anche fuori dalla Mesopotamia, sua patria d’origine, e conquistare il mondo intero.

Oltre agli alimenti, come sopra anticipato, il regno vegetale ci dispensa (anche in questo caso direttamente o meno) tutto ciò che indossiamo per difenderci dal caldo e dal freddo o soltanto per vestire alla moda: abiti di lino, camicie di seta, magliette di cotone, giacche di renna, sciarpe di lana, scarpe di cuoio, cappelli di fibre varie. Tutti prodotti che marcano il tempo trascorso da quando l’uomo pre-tecnologico si copriva con pelli rudimentali di montone o con fronde strappate agli alberi, com’é ancora in voga in certe remote tribù australiane. 

Chi ha una certa età sa bene che, con l’avvento delle fibre sintetiche (nylon, raion, ecc.), i mercati mondiali di fibre naturali subirono un tracollo improvviso. Fino a quando fu chiaro che gli indumenti di buona qualità si ottengono con fibre naturali o, tutt’al più, miste a quelle sintetiche. 

Altro importante settore d’impiego dei vegetali, com’è facile comprendere, è quello medicinale. 

I nostri lontani antenati quasi certamente ignoravano come e perché certi estratti vegetali agissero sul piano terapeutico, ma è indubbio in ogni caso che già oltre 5.000 anni fa Cinesi e Sumeri descrivevano centinaia e centinaia di piante con presunti poteri curativi. Galeno, uno dei più grandi medici dell’antichità romana, amava ripetere che il miglior medico è la natura, in quanto capace di vincere gran parte dei mali fisici che ci affliggono (tra l’altro, aggiungeva, non parla male dei colleghi!). In effetti, alla luce delle moderne ricerche scientifiche, tante piante si sono rilevate formidabili laboratori chimici, capaci di elaborare sostanze in grado di combattere parassiti e tenere lontani i fitofagi (non tutti sanno che anche gli animali hanno imparato a curarsi con le piante). Col tempo si è trovato sperimentalmente che tali sostanze, se utilizzate in certe forme e dosi, potevano tornate utili nella cura di molte malattie, tanto che, fino allo spirare del secolo scorso, oltre l’80% delle medicine è stato confezionato a partire da supporti vegetali. Significativo, nel merito, è il fatto che i primi orti botanici (noti come “giardini dei semplici”) furono fondati e gestiti dalle scuole mediche più avanzate e la botanica considerata nel contempo una branca della medicina. In atto, gran parte dei prodotti farmaceutici si ottiene per via sintetica, senza dimenticare tuttavia che la chimica moderna altro non fa che riprodurre i processi messi a punto dalla natura.

Per altro verso, occorre sfatare la convinzione che le piante siano servite e ancora servano a preparare decotti e infusi, buoni soltanto a lenire qualche fastidio passeggero. Per smentire l’assunto, basta citare qualche caso concreto. Il cortisone adoperato nel trattamento di gravi malattie (artrite, colite ulcerosa, dermatiti, ecc.) deriva da un modesto cespuglio (la Dioscoreavillosa) che cresce spontaneo nelle regioni tropicali; dalla digitale rossa (Digitalis purpurea) proviene il principio attivo giornalmente assunto da milioni di cardiopatici; dalla Rauwolpiaserpentina, una pianticella particolarmente diffusa in India, si ricava l’alcaloide usato nella cura dell’ipertensione; l’albero della coca (Erithoxylon coca), le cui foglie masticavano le antiche popolazioni andine per stimolare il sistema nervoso e lenire i morsi della fame, oltre alla perniciosa cocaina, consente anche di ottenere sostanze usate in anestesia, specie in campo oculistico e odontoiatrico. 

Quella dell’aspirina (acido acetil-salicilico, così detto perché preparato dalla corteccia del salice bianco) è una vicenda quanto mai istruttiva. Già nell’antica Grecia l’estratto di salice trovava impiego come antidolorifico e febbrifugo, esattamente come facciamo oggi. Ma grande fu la sorpresa, dopo la scoperta di Colombo, quando si apprese che uso analogo facevano gli Indiani d’America, senza che mai avessero avuto contatti con la civiltà ellenica.

E che dire, infine, di tutti quei prodotti che generano oggi gran parte dell’energia che manda avanti il mondo intero? È ben noto, infatti, che metano, petrolio, carbon fossile e combustibili simili (generi che siamo tentati di attribuire al regno minerale) traggono origine in effetti dalla decomposizione di organismi in prevalenza, se non esclusivamente, vegetali. Se l’impiego prolungato di queste materie è ritenuto la causa principale dei cambiamenti climatici che stentiamo a contenere è proprio perché la loro combustione libera le tonnellate di anidride carbonica che le piante avevano intrappolato milioni di anni fa, durante periodi di grande sviluppo delle foreste, mediante la sintesi clorofilliana. Si consideri, inoltre, che le onnipresenti materie plastiche, nostra croce e delizia, si ricavano proprio da petrolio e metano.

Ma senza tornare così indietro nel tempo, è sufficiente considerare che le ricerche in corso (e le prime realizzazioni concrete) volte a trovare alternative ai carburanti fossili stanno puntando, tra l’altro, anche su diversi vegetali nostri contemporanei. Le strade intraprese in tale direzione sono tre: a) estrarre dalle piante grasse proprie dei deserti quel liquido biancastro e lattiginoso ricco di idrocarburi in sospensione; b)trasformare in olio combustibile le resine naturali contenute in certe piante, anch’esse molto diffuse nei deserti; c) ricavare alcool etilico dalla fermentazione degli zuccheri, da miscelare poi a piccole quantità di benzina o all’acqua. I “biocarburanti” così ottenuti, allorché bruciati, rilascerebbero ugualmente CO2, la quale sarebbe però riassorbita dai vegetali coltivati ad arte, anziché accumularsi nell’aria come oggi avviene (tutte soluzioni, comunque, non scevre di inconvenienti, quale il consumo di suolo, di acqua e di energia).

Come ognuno può notare, da quanto detto fin qui resta escluso il complesso e affascinante capitolo riguardante le funzioni non materiali espletate dalle piante a vantaggio dell’uomo nei vari campi delle sue attività: architettura, ingegneria, arti figurative, religione, letteratura, vita contemplativa, benessere fisico,  rapporti interpersonali. Di tale argomento conto di occuparmi in separata sede.

Intanto, dal breve e necessariamente incompleto excursus che precede, si può trarre una conclusione certa: nell’ipotesi estrema, sia pure teorica, che dovesse cessare sul pianeta ogni forma di vita vegetale, la Terra tornerebbe ad essere in poco tempo quella landa inanimata e inospitale qual era 3,5 miliardi di anni fa, allorché sarebbero apparsi i primi batteri.