Perché le società adottano scelte autolesionistiche

di Giuseppe Giaimi

Via via che mezzi d’indagine sempre più sofisticati consentono di ricostruire con maggiore precisione la storia di alcune grandi civiltà del passato ormai estinte, tanto evolute e potenti al loro tempo da lasciare stupefatti per la grandiosità delle opere giunte fino a noi, si scopre che molte di esse collassarono a causa di una cattiva gestione delle risorse ambientali sulle quali avevano prosperato per secoli (deforestazioni su vasta scala, sterilizzazione di terreni ripetutamente coltivati, dissesti idrogeologici indotti, poco accorta gestione delle acque, estinzione in massa di piante e animali, incauta introduzione di specie aliene, e così via). 

Di fronte a tale costatazione ci si chiede come sia possibile che interi popoli, e in particolare le loro classi dirigenti che di quelle scelte portano la maggiore responsabilità, abbiano potuto commettere errori così maldestri, senza rendersi conto per tempo che, prosciugando le fonti del loro sostentamento (potremmo dire: “tagliando il ramo su cui erano seduti”), avrebbero decretato la loro stessa rovina.

Intanto, una riflessione sembra opportuna a riguardo: non è affatto vero, al contrario di quanto spesso si sente ripetere, che i popoli antichi (e i nostri stessi progenitori) abbiano sempre amministrato con accortezza il loro ambiente. Risulterebbe vero piuttosto che essi, tranne lodevoli eccezioni, abbiano modificato in negativo il territorio di loro pertinenza nei limiti consentiti dai mezzi disponibili prima della grande rivoluzione tecnologica (la zappa anziché l’escavatore, l’accetta anziché la motosega, la mazza invece della dinamite).

Gli Autori che al tema si sono applicati ritengono di avere individuato le motivazioni che hanno portato a scelte così infauste, dovute in parte alla buona fede e alla mancanza di puntuali conoscenze tecno-scientifiche, in parte alla perseveranza di inveterati comportamenti, ancorché manifestamente errati, e all’egoismo personale e di gruppo, soprattutto delle classi egemoni. 

Jared Diamond, ad esempio, il grande studioso statunitense dal quale ho tratto la storia dell’Isola di Pasqua apparsa su questo stesso sito, forte di una ricca ricerca bibliografica sull’argomento, così sintetizza le cause che avrebbero indotto, e ancora indurrebbero, a tali comportamenti: 

  1. Le società non riescono a cogliere l’insorgenza di un problema che, a lungo andare, finisce per produrre conseguenze rovinose. 

Ciò avverrebbe in primo luogo a causa della così detta “normalità strisciante”, in forza della quale piccole variazioni in un senso o nell’altro verrebbero interpretate come rientranti nel solco della normalità e non invece come mutamenti permanenti di cui prendere atto e a cui porre riparo. In tale categoria ricadono, ad esempio, i cambiamenti climatici su cui tanto si dibatte da tempo in tutto il mondo. In quest’ambito, l’alternanza di periodi caldi e siccitosi con altri freddi e piovosi è da intendere come mutamento costitutivo del clima o fa parte di quelle variazioni che sono sempre avvenute? Se anche oggi, nonostante i moderni mezzi d’indagine e le serie storiche termo-pluviometriche utilizzabili, tanti soggetti si collocano su posizioni contrapposte, può destare meraviglia se, in epoca medievale, i Norvegesi di Groenlandia non s’avvidero che il clima stava diventando sempre più freddo o se, ancor prima, gli antichi coloni dell’America centrale (Anasazi e Maya) non avvertirono ch’esso stava diventando sempre più arido, tale in entrambi i casi da rendere proibitive le pratiche agricole e l’allevamento del bestiame che quelle civiltà avevano a lungo supportato? O, ancora: possiamo biasimare i nostri avi per aver sfruttato i terreni fino a renderli del tutto sterili, tanto da doverli abbandonare, prima che venissero disvelati i meccanismi che regolano la nutrizione delle piante e messe a punto tecniche atte a conoscere la composizione chimica del suolo? 

Nella medesima categoria ricade il fenomeno denominato “amnesia del paesaggio”, per il quale si perde gradualmente il ricordo di ciò che era prima, salvo a dovere ammettere il cambiamento quando diventano manifeste le sue conseguenze negative. È difficile cogliere, ad esempio, se non in casi eccezionali, lo scioglimento di estesi ghiacciai o l’arretramento di grandi complessi boschivi se non dopo molto tempo, allorché sono ormai scomparse le generazioni che quei cambiamenti avrebbero potuto testimoniare. 

È, questo, lo stesso meccanismo per cui tanti racconti di padri e nonni appaiono a figli e nipoti esagerati, se non addirittura frutto di fantasia.

Di questo fenomeno, su piani minori, facciamo esperienza quotidianamente in ogni campo del vivere civile: nella politica, nell’economia, nella società, nella scuola, nella sanità, nell’educazione, nella sicurezza, nel traffico urbano. Come dimostrano le tante frasi di cui facciamo uso correntemente: “non ci sono più i partiti di una volta“, “questa non è la scuola che ho conosciuto tanti anni fa”, “la città è diventata invivibile”, e via di seguito. Eppure avremmo difficoltà a dire con precisione come e quando quei cambiamenti sono avvenuti.

  •  Le società non riescono a valutare appieno le conseguenze di azioni in apparenza innocue, di solito per mancanza di esperienze pregresse o di documentazione storica. 

Nel merito gli esempi si sprecano. Uno dei casi più citati è il disastro provocato nell’Ottocento dai coloni britanni, importando in Australia animali non autoctoni, come conigli e volpi, presto diventati autentiche piaghe economico-ambientali, simili a quelle bibliche che Dio avrebbe inflitto agli Egizi per non avere liberato gli Ebrei dalla schiavitù. I conigli, introdotti per il solo diletto della caccia, sarebbero cresciuti di numero così tumultuosamente da compromettere le colture agrarie e i pascoli destinati a bovini e ovini, anch’essi introdotti, a nulla giovando contro l’aumento dei roditori i fucili dei cacciatori appositamente reclutati, le costose recinzioni parzialmente interrate, le malattie specifiche introdotte ad arte, i bulldozer e perfino la polvere da sparo usata per distruggere le tane. Le volpi, a loro volta, importate per contrastare l’abnorme crescita dei conigli, non solo hanno mancato clamorosamente l’obbiettivo, ma hanno finito per sommare danno a danno, causando l’estinzione di tanti mammiferi autoctoni, così alterando consolidati equilibri biologici. Allo stesso modo, per citare altro esempio di natura vegetale, l’introduzione in Cina come foraggio per maiali della così detta erba degli alligatori (Alternanthera philoxeroides), subito diventata infestante, ha decretato la rovina di migliaia di ettari di terreni coltivati, con danni economici incalcolabili.

Se in atto in tutti i Paesi avanzati vigono controlli alla frontiera intesi a scongiurare l’introduzione di materiale biologico estraneo, ciò è dovuto proprio ad esperienze negative come queste. Anche se animali e vegetali esotici vengono ugualmente diffusi con le materie commercializzate e i mezzi di trasporto. 

Per citare casi del genere a noi familiari, ricordo che per questa via sono entrati in Italia parassiti dannosissimi (il cancro corticale del castagno, la grafiosi dell’olmo, il famigerato punteruolo rosso) che hanno di molto ridimensionato la presenza di specie pregiate del nostro patrimonio forestale e portato alla quasi estinzione la palma delle Canarie che per secoli ha caratterizzato il nostro paesaggio. Senza contare le epidemie più o meno gravi che affliggono di continuo l’umanità.

  • Le società avvertono l’esistenza di un elemento avverso, senza tuttavia adottare provvedimenti idonei a contrastarlo.

Ciò avviene di norma quando s’incide su un bene collettivo, senza avere interesse a preservarlo: prelievo di fauna selvatica, taglio di boschi dati in comodato, gestione fondi gravati da usi civici, affidamento terreni in gabella (affitto), esercizio di cave e miniere, edificazione su suolo pubblico. In casi come questi è ben noto il danno che si procura alla comunità, la quale tuttavia, rappresentata da soggetti che poco si sentono coinvolti individualmente, non reclama l’adozione di azioni e controlli severi volti a contrastare interessi di parte concentrati in piccoli gruppi ben agguerriti.

Con tale meccanismo, in Italia e non solo, in nome di supposti interessi socio-economici superiori, sono state inquinate aria, terra e acqua; privatizzata e sommersa da cemento gran parte delle spiagge demaniali; costruito sul letto dei torrenti; sventrate colline e montagne; portato all’estinzione centinaia di specie animali e vegetali. 

In altri casi pericoli rilevanti sono semplicemente ignorati per una sorta di rimozione collettiva o di fatalismo, come quando si accetta di vivere in zone note per essere soggette, più di altre, a terremoti, eruzioni vulcaniche, bradisismo, esondazioni fluviali, cedimento dighe incombenti su centri abitati. 

  • Le società sono restie a cambiare abitudini, entrate nel tempo a far parte del loro bagaglio culturale, anche se ritenute incompatibili oramai con le mutate condizioni storiche.

I capi tribù dell’Isola di Pasqua continuarono ad innalzare statue votive sempre più grandi e i re maya templi sempre più imponenti, senza tener conto che le condizioni economico-sociali erano del tutto mutate, pur essendo evidente che così facendo sarebbero andati incontro al tracollo. 

A livello più modesto, si pensi alla difficoltà di cambiare certe usanze invalse nei paesi occidentali, come l’uso pervasivo delle macchine a motore o la frenesia di costruire nuovi immobili, nonostante un’inversione di tendenza appaia ormai improcrastinabile a salvaguardia di un ambiente fortemente compromesso dall’inquinamento atmosferico e dal consumo inconsulto di suolo. 

  • Le società preferiscono perseguire interessi particolari e obbiettivi a breve termine, ignorando il bene pubblico e, ancor più, quello delle generazioni avvenire che non possono né votare, né protestare.

Milioni di poveri al mondo, assillati ogni giorno dalla necessità di procurare a sé e ai propri cari il necessario per vivere, non hanno certo il tempo e la voglia di indugiare sulle conseguenze delle loro azioni su chi verrà dopo di loro. Chi deve sopravvivere al gelo invernale non bada se sta tagliando l’ultimo albero della foresta rimasto in piedi; il pescatore intento a “sbarcare il lunario” non si fa scrupolo di usare metodi di pesca vietati dalla legge; chi si adopera per assicurare un qualsivoglia riparo per sé e i propri figli non pensa al piano regolatore comunale, ammesso che esista.

Purtroppo agli stessi comportamenti si adeguano le classi dirigenti che, in quanto tali, avrebbero l’obbligo di indicare ai meno acculturati, innanzitutto con l’esempio, i percorsi virtuosi da seguire e, soprattutto, di ridurre le intollerabili disuguaglianze sociali esistenti, causa tra l’altro dei comportamenti estremi di chi si vede costretto ad agire in stato di necessità (secondo le ultime stime l’1% della popolazione mondiale più abbiente detiene il 43% della ricchezza complessiva). Accade invece, salvo eccezioni, che si perseguano obbiettivi ad uso proprio e dei clan di appartenenza, spesso isolandosi in dimore dorate e dimostrando indifferenza a ciò che accade all’esterno. 

Insomma, schiere interminabili di “politici” a fronte di rari “statisti” secondo l’accezione dei termini desumibile dal celebre aforisma del predicatore e teologo statunitense James Freeman Clarke (1810-1888): “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista alle prossime generazioni. Un politico pensa al successo del suo partito; uno statista a quello del suo paese” (frasi erroneamente attribuite ad Alcide De Gasperi).