Luci ed ombre nell’orgoglio della dignità Siciliana

        A voler introdurre un discorso di enfatizzazione della dignità siciliana bisogna partire da lontano: da lontanissimo, e quindi, attraversate le tappe storiche intermedie, arrivare ad una indispensabile puntualizzazione relativa alla annessione dell’Isola in seno all’ unificazione nazionale e al nostro secondo dopoguerrra.

Andiamo con ordine: da punto di vista archeologico la prima identità di stato della Sicilia è certamente ascrivibile al ruolo condottiero di Siracusa; essa, paragonabile in dignità ad Atene o a Roma stessa costituì la città stato d’eccellenza rispetto alle poleis dell’isola; le leggende greche  riferiscono che essa sarebbe stata fondata  dagli Eoli di Grecia, i quali avrebbero occupato Ortigia, cedendola poi ai Siculi invasori; secondo Pindaro avrebbero avuto parte alla fondazione gli Elei, da cui sarebbe rimasto in eredità alla città il culto di Aretusa. Elide avrebbe dato origine alla leggenda del fiume  Alfeo, e sembra che Omero ne richiamasse il nome in Odissea con i termini Syra e Ortigia.

Il sito più antico di Siracusa e tra i più remoti dell’intera Sicilia  è il villaggio trincerato della civiltà  di Stentinello, che è collocabile in epoca neolitica  fra il 6000 e il 5000 a.C.; questa collocazione archeologica comprende il limitrofo villaggio di Matrensa, quasi alla foce dell’Anapo; identica origine è attribuibile all’ isolotto semisommerso del sito di Ognina, ivi si riscontano analogie con la civiltà megalitica di Malta, da cui provenne la colonia che vi si insediò in età del bronzo; altresì Plemmirio si colloca come sito  di area stentinellare d’età del bronzo.

Tra l’età del bronzo e l’età del ferro sono collocabili quali propaggini coloniali di Siracusa Pantalica, e Cassibile, nell’entroterra, che a far data dal ventunesimo secolo a.C. furono abitati dei Siculi e dai Sicani.

Il nome Syrakousai trae la sua origine da Syraka denominazione preistorica, termine che non è collocabile né per la sua origine e neppure per il suo significato originario. 

         La leggenda fondativa, da parte sua, attribuisce ad Archia di Corinto la nascita di Syrakousai, il quale unitamente ai suoi coloni si sarebbe insediato ad Ortigia, cacciandone i Siculi; secondo Strabone, da parte sua, sarebbero stati a costituirla in gran parte prigionieri troiani di Agamennone; tra gli storici antichi si stabiliva, a loro volta, come data di fondazione non condivisa quella indicata da Tucidide, il nostro 734 o il 733 a.C.

         La città crebbe in ascesa rapidamente sotto la tirannide di Gelone I, e proseguì in crescendo  di conquiste e di ricchezze, nonché di fama; poiché lievitava in affermazione anche sulle vie commerciali le si riversò contro la rivalità di Atene, che nel 415 – siamo con in corso la guerra del Peloponneso –  le inviò contro una imponente armata costata molti denari al fine di sottometterla, e che invece si rivelò un colossale fallimento che portò quell’armata stessa alla distruzione.

Il suo ruolo di soggetto primario della politica del mondo antico continuò a montare sotto gli altri grandi tiranni: Dionsio I e i suoi successori. Nel Mediterraneo essa innescò vari conflitti.

Dionisio II dotò la città di un colossale sistema di fortificazioni, si rese forte di migliaia di soldatati all’interno della città, al suo esterno riuscì a reclutare altrettanti cavalieri e dieci volte di più di opliti  soprattutto mercenari ; la sua flotta era poderosa quanto quella di Cartagine.

Non fu secondario l’impegno militare di Cartagine nel suo disegno di politica imperialistica ai danni proprio di Siracusa, contro cui innescò le guerre greco-puniche; per quanto riguarda la rivalità con Roma si ipotizza che l’assedio dei Galli contro di essa, all’epoca di Dionigi, possa avere avuto a retroterra una alleanza di Siracusa con essi volta a ridimensionare sul nascere l’espansione romana; e pure sul fronte adriatico Siracusa suscitò la rivalità di Sparta, infatti questa non vedeva di buon occhio i conseguimenti della Pentapolis.

Fu il logorio interno di questa compagine politica, non secondariamente per il dissentire del tiranno dal cognato Dione, che con Platone favoleggiava uno stato retto dai filosofi, a determinare il tracollo della tirannide di Dionisio II: Messina, Tindari Taormina, Agrigento si sottrassero alla alleanza con Siracusa.

Con il declinare di Dionisio Siracusa stessa declinò lasciando, nello scacchiere orientale, il campo ad Alessandro Magno.

Sotto Agatocle la città tentò in alleanza con Ofella, generale di Alessandro, un colpo di mano militare sul suolo africano contro Cartagine: qui Agatocle tradì il suo alleato; in contemporanea dovette rientrare in Sicilia per far fronte alla ribellione delle città greche capeggiate da Agrigento, e tuttavia sul fronte orientale si scagliò contro Itaca e si impadronì di Corfù. Un colpo di stato ordito dalla moglie e dai figli lo vide soccombere finendo avvelenato; nella lotta per la successione prevalse Gerone II, che governò a lungo e fu ben visto per il suo saggio governo; sotto di lui si affermò il genio di Archimede; Gerone ebbe la sagacia di sapersi districare tra due nemici: i Cartaginesi ed i Romani, ai quali ultimi offrì alleanza; viceversa Geronimo, suo successore, ribaltò le alleanze col risultato di scatenare una guerra civile e quindi di pervenire alla guerra con Roma dopo il suo assassinio.

         Cessata la supremazia siracusana, la Sicilia fu sottomessa dai Romani e non ebbe più ruolo sovrano; un momento di orgoglio siciliano fu quello della denuncia contro Gaio Licinio Verre, propretore della Sicilia dal 73 al 71 a.C., che vide Cicerone artefice di un processo storico che giunse alla condanna di Verre.

I secoli successivi testomoniano ancora la Sicilia sottomessa alla autorità romana fino alla conquista ad opera di barbari di Odoacre, quindi di Genserico, poi dei Vandali e dopo di Teodorico.

Nel 554 con la fine della guerra di riconquista, l’Italia intera venne annessa all’ Impero Romano d’Oriente: la Sicilia entrò a far parte della  Prefettura del pretorio d’Italia bizantina (584) , finché  il 17 giugno dell’ 827  berberi condotti da arabi o persiani, per mano del qadi di Qayrawan Asad b. al-Furat, effettuarono lo  sbarco che avvenne  presso Capo Granitola nei pressi di Mazara del Vallo, riuscendo ad impadronirsi di Marsala.

Nel 948 fu costituito l’Emirato di Sicilia, quale stato sovrano, ad opera dei Kalbiti, che si resero indipendenti dagli arabo-berberi Fatimidi dell’ Ifrigiva: se non per apprezzabili equilibri interni, non ne venne alcuna gloria che desse vanto ai Siciliani.

Bisognerà attendere i Normanni per liberare l’isola dal giogo musulmano: la conquista normanna portò alla istituzione della Gran Contea di Sicilia tra il 1061 e il 1130; ad essa venne annessa Malta.

A Mazzara del Vallo nel 1097 Ruggero I indisse una assise che anticipò l’istituzione di quel parlamento antico che in contemporanea   vide qualcosa di simile solo in altri tre casi, che poi nel 1130 con Ruggero II diventerà un vero e proprio parlamento denominato Curiae generales , con sede a Palazzo dei Normanni, sicché  è con la proclamazione del Regno di Sicilia che si può parlare di primo parlamento in senso moderno di uno stato sovrano. L’Altavilla,  favorendo papa Anacleto II  nel  suo contrasto in occasione del dissidio interno al Collegio cardinalizio sulla successione al soglio di Pietro, ne ebbe in offerta la corona di re e una alleanza col papato: pertanto il duca Ruggero convocando nei pressi di Salerno  principi, conti, baroni ed altre figure di spicco, ottenutone il parere favorevole, si spogliò del titolo di conte e conferì a sé il titolo di re di Sicilia, Puglia e Calabria; di conseguenza fu incoronato re in Palermo la notte di Natale del 1130 .                                      

         La dinastia degli Altavilla rese la Sicilia, un punto nodale dei traffici e dell’economia del mondo dell’epoca. Frattanto per il citato scontro armato tra i papi antagonisti Innocenzo II e Anacleto II, questo scontro vide Ruggero, contrapposto all’Impero, a dover subire il ridimensionamento dei suoi territori sul suolo della penisola, ma in seguito al rientro in patria dell’imperatore Lotario Ruggero ebbe mano libera a riconquistare Salerno, Avellino, Capua Benevento e Napoli.

Con la morte di Lotario e di Anacleto II, Innocenzo II consolidò il suo ruolo papale: di conseguenza gli atti di Anacleto vennero resi nulli e dunque ciò metteva in difficoltà Ruggero, che tuttavia ebbe supremazia militare – addirittura a Montecassino prese prigioniero il papa –  che fu costretto a riconfermargli la corona regia il 27 luglio del 1139.

Sotto Ruggero la Sicilia divenne uno  dei più potenti ed ordinati stati dell’epoca, dotato delle Assise del regno di Sicilia, che promulgò nel 1140 ad Ariano Irpino e che formavano la nuova costituzione del Regno di Sicilia; inoltre disciplinò le gerarchie di potere istituendo  il Catalogus baronum, mediante il quale poté esercitare un controllo puntuale del territorio, istituzionalizzò i rapporti vassallatici e diede forma alle risorse militari di cui poter disporre; e ancora, prese a modello il dîwân al-majlis, dei Fatimidi e grazie ad esso poté operare il  controllo del trasferimento di proprietà delle terre.

Lo stesso Ruggero II si impadronì di Napoli, Malta e Gozo, di territori in Africa tra la Libia e la Tunisia, nonché della Tripolitania; morì nel 1154.

Gli succedette Guglielmo I il malo, che ebbe contro di sé l’impero, Bisanzio e il papato subendo una grossa sconfitta, ma poi rifacendosi nello scontro successivo risoltosi in suo favore. Guastandosi poi i rapporti con i nobili, egli incaricò Matteo Bonello di mediare, ma questi lo tradì poiché si mise a capo di una rivolta dei nobili calabresi e pugliesi; nel volgere degli avvenimenti Guglielmo finì addirittura catturato, ma successivamente a causa di un tradimento ai suoi danni Bonello fu catturato e rinchiuso fino alla sua morte.

Morto nel 1166 a sua volta Guglielmo I il malo, gli succedette Guglielmo II il buono, che garantì stabilità e riappacificazione, e che nel 1172 riformò la Magna Curia nelle due articolazioni: M.C. rationum con incombenze finanziarie e M. C. di Alta Corte di giustizia.

Dopo un tentativo di sottomissione ai danni di Bisanzio da cui dovette recedere, Guglielmo riuscì ad accordarsi con Federico I a che si unissero in matrimonio sua zia Costanza ed Enrico VI, ciò che avvenne il 27 gennaio 1186, quando l’Hohenstaufen fu incoronato re a Palermo col gradimento del papa, contrario agli Svevi, che tuttavia sperava di trarre vantaggio da parte normanna.

Deceduto quindi Guglielmo senza eredi diretti, una parte della Corte normanna sostenne Tancredi, ultimo degli Altavilla, che morì nel 1194 ed a cui succedette Guglielmo III di soli nove anni: a tal punto Enrico VI, divenuto frattanto imperatore, scese in Italia e riconquistò i territori normanni sbarcando con l’esercito a Messina che fu messa a ferro e a fuoco; Guglielmo fu deportato in Germania praticamente  in  stato di prigionia, fino alla sua morte, a 13 anni

Il Regno di Sicilia, di cui egli aveva ereditato anarchia, disagio finanziario, baronie riottose e musulmani in rivolta, era di nuovo nel caos. Nonostante i suoi sforzi, Enrico riuscì ad assicurare solo la successione del figlio di appena tre anni, il futuro Federico II; egli morì il 29 settembre 1197 a Messina. Il clima di terrore che attanagliò la Sicilia si allentò solo con la morte improvvisa dell’imperatore.

         Affidato al papa che non se ne curava minimamente, Federico II visse libero scorrazzando ragazzino per le vie di Palermo, spesso curato dai popolani: questa sua formazione da ‘outsider’, addirittura lo portò ad aprire la sua mente in una capacità di comprensione e cultura non comune.

         Federico II fu eletto nel 1211, e fu incoronato dapprima ad Aquisgrana nel 1215, quindi a Roma nel 1220; egli apparteneva alle nobili famiglie degli Hohenstaufen per parte di padre e degli Altavilla per parte di madre;  era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che da subito incentrò su di lui l’attenzione degli storici e del popolo, e che gli fruttò l’attribuzione  di una lunga serie di miti e leggende popolari.

Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale; ebbe contro di sé il papato geloso del rischio della propria indipendenza; egli mirò ad unificare le terre e i popoli.

Fu un apprezzabile letterato, giocò un ruolo importante nel promuovere lettere, filosofia, astrologia, matematica, algebra, medicina, scienze naturali e fu un buon esperto di economia. Fu altresì appassionato della cultura araba; parlava sei lingue latino, siciliano, tedesco, francese, greco ed arabo.

La sua corte reale siciliana lo vide convinto protettore di artisti e studiosi, e fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, germanica, araba ed ebraica. Da Palermo ebbe origine l’utilizzo della lingua romanza, e la Scuola poetica siciliana, che nacque tra il 1230 e il 1250, attraverso la poesia in essa fiorita costituì incentivo alle successive conquiste artistiche e culturali fiorentine.  Alla sua corte soggiornarono uomini di gran cultura di quei tempi.

Uomo straordinariamente colto ed energico, creò una struttura statuale del tutto somigliante a un moderno regno, governato centralisticamente e con una amministrazione efficiente.

Ad agosto del 1231, nel corso di una fastosa cerimonia tenutasi a Melfi, promulgò, secondo le sue direttive, la raccolta organica e armonizzata della sua ricca e varia legislazione avvalendosi di un gruppo di giuristi qualificati.  Questo corpo organico, preso lungamente a modello come base per la fondazione di uno stato moderno, è passato alla storia col nome di Costituzioni di Melfi. Il suo stato, il Regno di Sicilia, fu ripartito in undici distretti territoriali detti giustizieriati che avevano a capo funzionari di propria nomina, i giustizieri   che rispondevano del loro operato in campo amministrativo, penale e religioso a un loro superiore, il maestro giustiziere, referente diretto dell’imperatore che stava al vertice di questa struttura gerarchica di tipo piramidale. Il Re imperatore abolì all’interno del suo impero i dazi interni e i freni alle importazioni.

Per questa sua oggettiva grandezza in ‘toto’ fu definito ‘Stupor Mundi’.

Fu l’Acme della gloria della Sicilia, della sua capacità di autogovernarsi e governare quelle che diventavano praticamente province, di dare i natali alla letteratura e quindi, per il tramite dell’esempio siciliano, alla lingua vernacola italiana e innesco al futuro rinascimento.

Alla sua morte la rivalità del papato verso gli Hohenstaufen consegnò la Sicilia agli Angioini, mettendo fuori gioco Manfredi e Corradino, che esaurivano il loro competere con la morte.

         La Sicilia, da sempre fedelissima alla dinastia sveva, era ora il bersaglio della rappresaglia dei francesi, la situazione si era fatta particolarmente grave: alcune famiglie siciliane come i Lauria, i Lanza (la famiglia della nonna di Costanza) e i Procida, che si erano opposti agli angioini, si trasferirono presso la Corona d’Aragona; la libertà dei baroni era stata compressa per una generalizzata riduzione delle libertà baronali e, soprattutto, per una opprimente politica fiscale. Gli Angiò si mostrarono insensibili a qualunque richiesta di mediazione, perpetrarono usurpazioni, soprusi e violenze. I nobili siciliani, alla fine del 1280 – approfittando del momento internazionale dissestato –  i baroni siciliani in particolare, ruppero gli indugi organizzando una sollevazione popolare che desse un segno tangibile della loro determinazione, convincendo l’unico interlocutore rimasto, Pietro d’Aragona, ad accorrere finalmente in loro aiuto soprattutto per la rinnovata ostilità dei D’Angiò e del nuovo papa francese Martino IV.

Il casus belli fu dato in occasione della funzione serale dei Vespri il 30 marzo 1282 sul sagrato della chiesa del Santo Spirito a Palermo: un soldato dell’esercito francese si era rivolto in maniera irriguardosa a una giovane nobildonna accompagnata dal marito e giungeva a metterle le mani addosso con la scusa di perquisirla; il marito gli sottrasse la spada e lo uccise. Da questo episodio ebbe inizio la rivolta: tra la sera e la notte i palermitani – al grido di “Mora, mora!” – si abbandonarono a una vera e propria “caccia ai francesi” che immediatamente coinvolse l’intera Sicilia generando carneficina.

Dopo l’insurrezione il popolo isolano cercò all’inizio di costituire uno stato chiamato Communitas Siciliae, ma subito i nobili isolani chiamarono Costanza e il marito Pietro a regnare sull’isola. Una delegazione incontrò Pietro III d’Aragona, che si trovava in nord Africa, a Djerba per la spedizione di Tunisi, e gli offrì la corona del Regno di Sicilia.

Pietro sbarcò così a Trapani il 29 agosto, quando la città stava per arrendersi ed entrò a Palermo il giorno successivo, togliendo l’assedio a Messina.

Pietro e Costanza furono incoronati regnanti il 7 settembre 1282 a Palermo.

 Al grido di “bonu Statu e libbirtàti!” nasce nel il 1282 il Regno di Trinacria;  data di incoronazione di Pietro III di Aragona; è il 1302, anno della pace di Caltabellotta, quando, a conclusione della prima fase della guerra dei Vespri siciliani, il Regno di Sicilia fu ufficialmente diviso in due parti: l’una l’Isola di Sicilia denominata come regno di Trinacria, guidata da re e regine. Tra i più noti monarchi vi furono: Pietro III d’Aragona e Costanza II di Sicilia, e più tardi Federico III di Aragona ed Eleonora d’Angiò.

Nel frattempo la parte continentale assumeva la denominazione di regno di Sicilia citeriore, più comunemente noto come Regno Napoletano, con alla guida il re Carlo II d’Angiò.

I Siciliani si accorsero che Pietro non avrebbe dato la libertà e il buon governo all’isola: quando egli cercò di riconquistare la parte continentale del Regno, scoppiò una rivolta interna, capitanata da Gualtiero di Caltagirone, sostenitore di un governo autoctono. Lo stesso Pietro, scomunicato da Papa Martino IV, ritornò in Aragona lasciando l’isola nelle mani della moglie.

Pietro morì nel 1285 e la moglie continuò ad occuparsi del governo dell’isola come reggente, per conto del figlio Giacomo. Giacomo, a sua volta, ottenuta l’investitura papale, fondò un regno di Sardegna e Corsica lasciando la Sicilia alla madre. Intanto il parlamento siciliano nel 1295 scelse come re Federico III che passò alla storia come uno dei migliori re dell’isola.

         Dopo di lui l’Isola ha vissuto nella sottomissione al padrone di turno, e sarebbe noioso elencare i vari avvicendamenti, ma tuttavia mi sia concessa una postilla (quasi un insopprimibile ‘cahier de doléances’) sulla mortificazione post-unitaria del Meridione e della Sicilia in particolare:          senza per questo volere proporre un tardivo pronunciamento filoborbonico, che non avrebbe senso a quasi centocinquant’anni di distanza e in una odierna realtà istituzionale repubblicana e dopo la caduta di settant’anni fa della monarchia sabauda, colpisce tuttavia ancor oggi nel sentimento più profondo quanto angosciò quel re – Francesco II  – nei giorni della sua sconfitta:  Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altr’aria, non ho veduti altri paesi,   non  conosco altro    suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni.”                                  .                                                                                                           (cfr.Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all’ultimo assedio del 1860-61 di Lucio Severo).

         Penso che avremmo meritato maggiore rispetto, la Sicilia come stato sovrano e quel re un po’ troppo vilipeso in omaggio alla retorica celebrativa. E penso che maggiore rispetto avrebbero meritato e meritano nella memoria i combattenti e le combattenti di una guerra di legittimismo partigiano di quel Fronte sconfitto che  operò attivamente facendo sua la causa della Controrivoluzione  Filo-Borbonica in una rivolta, la popolare, che si espresse come guerra partigiana di resistenza, dai vincitori catalogata propagandisticamente quale brigantaggio; studiosi di primordine oggi danno atto di questa caratteristica partigiano-resistenziale del fenomeno: Molfese, Alianello, Albonico, Leoni, Del Boca,  Martucci; Maurizio Restivo in particolare, e vari altri; e ne forniscono documentazione probante quanto alle efferate stragi e violenze, al terrore, dai toni non dissimili dalla repressione robespierreiana in Vandea,  e alla ingenerata miseria, per non dire del dirottamento dei capitali a rendimento che dalle banche del sud andarono, in partita di giro, a rimpinguare le dissanguate casse del nord, consentendo loro altresì di metter mano a quella industrializzazione di cui ancora oggi gode il Settentrione sulla ‘pelle’ del Meridione.

         L’iniziativa di aggressione al   Regno delle Due Sicilie, per quanto supportata dai Picciotti, veniva da estranei: Piemontesi, Francesi ed Inglesi, ad opera e per mano  di onesti intellettuali idealisti e del magnanimo  Garibaldi; l’occupazione veicolata dalla sua dittatura,  accese infatti da subito una diffusa rivolta delle classi popolari, allorquando – disillusi nelle aspettative di rivoluzione sociale, come era stata propagandata – i duo/sicilani realizzarono subito la consapevolezza che non solo si trattava dell’avvicendamento di un re ad un altro, con caratteri di discutibilissima legittimità successoria, ma che a patirne i costi sarebbero state proprio le classi diseredate. Lo stesso Garibaldi realizzò successivamente su di sé il tradimento del suo generoso (ed inevitabile politicamente e diplomaticamente) dono a quello stesso re che nondimeno costrinse, annoverandolo nel ruolo di nemico, il padre della Patria Mazzini all’esilio.

Indicativo è che venne nullificato  l’Editto di Rogliano di Garibaldi  del 31 agosto 1860, che aveva concesso alle popolazioni contadine in zona Cosenza  l’uso gratuito del pascolo e della semina sui terreni demaniali statali, perché, di contro, si ebbe la privatizzazione delle terre demaniali che andò a beneficio dei proprietari terrieri voltagabbana quale premio consistente nell’ampliamento delle proprietà  in contraccambio di fedeltà al nuovo regime e di maggiore presenza sul territorio a garanzia di esso.

        Per tutto questo si accese la reazione popolare antisabauda che si alimentò di leve di disperati, di ex soldati borbonici, ma pure – purtroppo – di malviventi delle diverse specie; non fu secondaria la rabbia contro gli eccidi e le distruzioni operate dai conquistatori.

         Furono migliaia gli insorti in armi, animati da quello stesso lealismo del sanfedismo di sessant’anni prima in una ventata di orgoglio duo/siciliano da Vespri, che unì il risentimento popolare a quello della   classe nobiliare e del notabilato che si dotarono per parte loro di strategie cospiratrici in un lavoro di attività ‘sotterranea’ che portò questi galantuomini a rimettere pur essi di persona. La motivazione del sollevamento risiedette nelle cause storiche: la cacciata dinastia aveva avuto il pregio ai loro occhi di mantenere un’organizzazione di tipo feudale, che con seri timori i maggiorenti ritenevano venisse minacciata dal Piemonte conquistatore; la stessa deposta monarchia, per altro, aveva introdotto delle modernizzazioni, che – non alterando lo ‘status quo’ – dal popolo erano state apprezzate anche nella vita di ogni giorno. Il trapasso di regime castigò fortemente il Meridione: divennero insostenibili le condizioni economiche dei braccianti, precedentemente  poveri,  ma conduttori di una  vita dignitosa, i quali allora godevano di una condizione  sostanzialmente sopportabile  per il fatto che  il costo della vita era adeguato, l’imposizione fiscale era contenuta e v’era una buona possibilità di collocazione sul mercato dei prodotti agricoli; con l’avvicendamento dinastico ne venne una pressione fiscale esorbitante la loro possibilità di spesa ed un riassetto del mercato agricolo assolutamente penalizzante.

         I lavoratori a giornata non potendo più essere impiegati nelle terre demaniali furono tiranneggiati dal caporalato, immiserendo ulteriormente la loro condizione economica rispetto ai tempi andati; ad ulteriore scorno – uno per tutto –  venne smantellato il Polo siderurgico di  Mongiana  e  con violenza  fu disperso il personale che lo aveva  occupato.

La leva obbligatoria di massa costituì il definitivo capestro; infatti sotto i Borbone riguardava un  numero esiguo di cittadini estratti a sorte, e per la maggior parte la truppa era mercenaria.

Non va neppure sottovalutato che l’ideologia liberale di cui il Piemonte era portatore faceva fortemente temere la compromissione dei valori cattolici diffusi e dominanti con le tradizioni che comportavano; la rivalità verso lo Stato pontificio, dove in primo momento  risiedeva il re deposto, Francesco II, ne era una conferma; un sostanziale supporto di esso nella prima fase  di questi moti insurrezionali fortificò il fenomeno.

Si accese altresì la reazione legittimista organizzata soprattutto dai notabili e dai nobili filo borbonici, che non avevano accettato di tradire.

La rivolta impegnò subito gli anni di esordio unitario 1860-1861

Il generale Enrico Cialdini, con poteri eccezionali dovuti alla manipolazione dello Statuto albertino (che non concedeva l’istituzione di tribunali che non fossero garantisticamente paritari per i cittadini tutti), grazie alla legge Pica ebbe ad istituire invece tribunali speciali, e perseguì  il clero, i notabili e i nobili legittimisti e mise in atto la dura repressione che non risparmiò alcuno dei sottoposti ad arresti in massa, ad esecuzioni sommarie, a distruzione di casolari, masserie e centri abitati, a fucilazioni e incendi indiscriminati, a taglie e deportazioni.

         I conquistatori fecero ricorso intimidatorio ad una grande ricchezza di immagini che ritraevano i  cadaveri dei cosiddetti briganti, le esecuzioni reali o artatamente ricostruite; non mancò il tradimento della parola militare data: a Trivigno, dopo un rastrellamento, fucilati  alcuni prigionieri, fu  emanato il bando che  prometteva  il perdono a chi si fosse consegnato; in  28 si consegnarono e, in barba alla promessa, furono fucilati senza processo.

I patrioti resistettero, oltre la disfatta: esemplare fu la cittadella di Messina e una gran massa di cospiratori, tra i quali vennero arrestate più di seicento persone.

Maria Oliverio alla morte del marito prese il comando –  e fu l’unica donna ad essere condannata a morte – ella aveva condotta la sua resistenza contadina opponendosi al subentrato governo, che aveva privilegiato i baroni, i notabili ed i ricchi possidenti, quelli che avevano tradito a favore del nuovo regime; da parte loro, degli insorti, era una legittima difesa degli interessi dei pastori e dei contadini, ma fu a sua volta ridotta alla resa ed alla rassegnata sottomissione.

Gli ultimi strascichi di resistenza datano 1866-1871, sicché già nel 1870 fu decretata la fine del brigantaggio.

         ‘Colpo di coda’ epi-fenomeno, ma in un contesto ben diverso di ideologia democratica e socialista, fu in Sicilia tra il 1891 e il 1894 il fenomeno dei ‘fasci siciliani‘, diffusosi fra proletariato urbano, i braccianti agricoli, i minatori e gli operai. Fu disperso solo dopo un duro intervento militare sotto il governo del – siciliano! – Crispi. 

        Un ultimo guizzo di orgoglio siciliano sembrerebbe quello del nostro secondo dopoguerra, ma non è facile accoglierlo come tale liberandolo da interrogativi: mi riferisco al sorgere del movimento indipendentista siciliano guidato da Andrea Finocchiaro Aprile, un personaggio che intrattenne stretti contatti con i servizi segreti sia inglesi che americani, fautore della nascita dell’esercito volontario per l’indipendenza siciliana EVIS.

Gli interrogativi si infoltiscono alla luce del fatto che quello che è conosciuto come il bandito Giuliano nella primavera del 1945, intendendo aderire all’EVIS, incontrò alti esponenti del movimento indipendentista siciliano, e mi riferisco a Concetto Gallo ed al baronetto Lucio Tasca Bordonaro, ai quali chiese  milioni di lire, che gli furono concessi unitamente ad armi e munizioni ed  al grado di colonnello: eppure Salvatore Giuliano ed i suoi accoliti avevano già compiuto rapine e sequestri di persona ai danni di ricchi agricoltori, commercianti, imprenditori (dunque attività puramente delinquenziali) in correità con Ignazio Miceli, il capomafia di Monreale, e del fiancheggiatore della mafia Benedetto Minasola, i quali due ebbero compiti di   tesorieri e custodi di sequestrati; per altro Giuliano era noto come feroce assassino di quasi 500 uomini (e non dimentichiamo Portella della Ginestra). E sostenne Pisciotta, suo braccio destro, che quegli ebbe a partecipare ad un summit di mafia; che fosse un uomo d’ onore  diede altresì  testimonianza Tommaso Buscetta; si aggiunge a conferma che Maria Cyliacus, il cui vero nome era Maria Lamby Karintelka, spia al servizio segreto degli USA, lo dipinse come una figura romantica, e pare proprio che trattasse con lui per conto della CIA; e ben sappiamo come gli USA abbiamo tirato fuori di prigione Lucky Luciano allo scopo di riallacciare rapporti con la mafia siciliana residua dopo la dispersione ad opera del prefetto Mori, al fine di far capitolare l’isola nel corso della guerra e col risultato di reinsediare una potente neo-mafia.

                                                                                                                

Claudio Sergio Stazzone