Il Caso Gulotta: C’è un giudice a Berlino ?

Non la pongo come affermazione, così come è nata in relazione al caso del mugnaio settecentesco che, non riuscendo ad avere giustizia a Potsdam dai locali giudici, volle ottenerla appellandosi al suo re: Federico di Prussia il Grande, e da questi ottenne giustizia: ma si trattava di un sovrano particolarmente dedito ad amministrare la buona giustizia; basterà ricordare il suo ‘Codex Fridericianus’ ottimamente regolante fino dal 1747 la delicata funzione dell’amministrazione di essa, finché anche lì, in Prussia, morto l’illustre Cocceio – al momento condizionato il re dai gravi fatti di guerra – ebbero a riemergere gli abusi, per opera della gente di toga; nonostante la sua gotta il re diede ragione al ricorrente e, affermando che “ci sono dei giudici a Berlino”, ed in questo spirito, rimise mano ad una nuova regolamentazione della giurisprudenza affidata alla redazione di un nuovo Codice; è la prima parte di ‘Prozess-Ordnung’, ossia Regolamento di Procedura, che fu promulgato il 26 aprile 1784. E tuttavia non è facile disporre di statisti e legislatori di questa fatta; e quanto alle leggi e alla loro interpretazione restano affidate a chi questo potere detiene con maggiore o minore coinvolgimento e senso di onestà e acume.

Per questo motivo pongo l’intestazione di questo ‘pezzo’ in forma interrogativa.

Il problema è vecchio, ottimamente riassunto dal ‘mio’ grande Giovenale, maestro di axiologia, che ebbi ad amare all’università leggendone le satire: non è un moralista (dei moralisti diffido), bensì un castigatore di costumi deviati: “Quis custodiet ipsos custodes?” Sappiamo che è una affermazione tratta dalla VI Satira di Giovenale, per l’appunto, che letteralmente significa: «Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?». E non fu da meno il grande Platone, che nel dialogo del libro III, capitolo XIII de ‘La Repubblica’ asserisce che i custodi dello Stato devono guardarsi dalla ubriachezza, per non avere essi stessi bisogno di essere sorvegliati. La frase recita: «Γελοῖον γάϱ τόν γε φύλαϰα φύλαϰος δεῖσϑαι.» concludendo che « È certamente ridicolo che un custode abbia bisogno di un custode».

Stiamo parlando di custodi (non esclusivamente di giudici), e quindi l’assunto ci servirà per riportarci al nostro caso Gullotta, infatti l’Uomo sarà vessato non solo da ingiuste applicazioni della legge da parte dei preposti, ma pure da operatori in tutela dell’ordine pubblico che a ben altro comandamento di giustizia avrebbero dovuto attenersi.

Non starò a riprendere le vicissitudini di Giuseppe Gullotta, sarei ripetitivo rispetto alla magistrale e terribile testimonianza che ne ha dato con mirabile sensibilità ADSeT presso l’Istituto ‘Antonello’, il 30 marzo: chi volesse rivisitarle potrà affidarsi alla lettura del libro ‘Alkmar’, un libro pubblicato da Chiarelettere in cui la vittima racconta la sua esperienza assieme al giornalista Nicola Biondo, in vendita presso la libreria Bonanzinga, e/o trarne informazione presso Internet, alla voce.

Muratore, Giuseppe fu accusato di aver ucciso due carabinieri ad “Alkamar”, piccola caserma in provincia di Trapani, solo perché amico di altri diciottenni ed in particolare di uno di essi, un soggetto discutibile che si impiccherà in carcere, servendosi inspiegabilmente dell’ unica mano di cui disponeva, dove morì, in più, un altro degli accusati.

E fu costretto, Giuseppe, ad autoaccusarsi da inenarrabili, sconvolgenti sevizie subite presso la caserma dei carabinieri, come egli racconta dal vivo: botte da orbi senza soluzione di continuità, strappo dei capelli, schiacciamento dei testicoli, insinuare mellifluo e comandare violento di confessare il delitto, divieto di nutrirsi e di evacuare tanto da urinarsi addosso e svenimenti; chi non avrebbe confessato firmando la propria autodenuncia? 

Appassionata non è stata solo la testimonianza dell’Interessato, appassionata, scandalizzata e stentorea è stata pure la lettura di passi del testo per la voce di Angelo Miceli e di Nino Olivo; caustici sono stati nello stigmatizzare la palese ingiustizia Daniela Bonanzinga e l’avv. Paolo Vermiglio ai quali si deve l’ “accendimento dei fari” su questo caso che, grazie al concorso di fattori vari, come ha spiegato l’avvocato, ha consentito di raggiungere la verità, pur restando in ombra tuttavia che servizi deviati abbiano ucciso i due carabinieri e il terzo l’ufficiale superiore, tremendo gestore dell’ ‘affair”; testimonianze di pentiti di mafia, ammissioni pubbliche di Valter Veltroni presso il presentatore Fazio, hanno portato alla “resurrezione” dopo 22 anni di carcere dell’encomiabile Giuseppe. 

Quello che ha conquistato l’aula, traboccante di persone, è stato il ‘socratismo’ di Giuseppe; egli avrebbe potuto darsi latitante nel periodo di attesa delle innumerevoli sentenze che all’ergastolo lo condussero, ma si ostinava a credere che la giustizia va ossequiata a qualsiasi costo e che così facendo giustizia sarebbe stata fatta a suo favore; in più, dialogando con lui, ancora soffre per una giustizia che ha riabilitato lui – e vive con generosità di cuore l’intera vicenda – ma non ha reso pubblica giustizia ai due poveri carabinieri morti solo per aver fermato il furgoncino sbagliato!

E, tornando al socratismo di Socrate, visto il ripetersi nei tempi di vicende di tal fatta, ricorderò che Platone l’ingiustizia l’aveva vissuta da protagonista con il caso Socrate, da lui magistralmente rappresentato nella sua ‘Apologia di Socrate’; la vicenda del 399 a.C. vede l’Areopago (un tribunale dello stato!) che si aduna per giudicare il più grande spirito che l’umanità abbia prodotto – secondo solo a Cristo, vittima della identica sorte – il quale a settant’anni, difendendosi da sé, mostra inequivocabilmente l’infondatezza delle accuse a lui rivolte non ottenendo la dovuta giustizia contro i pretesti giuridici che servirono ad eliminare un disturbatore, mediante il suo libero utilizzo della propria libertà di parola e di pensiero, degli intrallazzi dell’epoca. Egli si fece carico di questa missione di moralizzatore del costume pubblico nel nome della giustizia, senza interesse alcuno. Addirittura, nel difendersi, chiamò a testimoni della sua integerrima condotta i suoi giudici: nessuno di loro può affermare di averlo mai colto in flagranza e/o in sospetto di reato!

E tuttavia fu condannato a morte, e da giusto non volle scamparla con i sotterfugi propostigli.

La manipolazione della giustizia, in buona o cattiva fede, ad opera della finitezza e a causa del limite umano è dunque un problema eterno, e per non diventar prolisso ricorderò di ‘striscio’: l’affare Dreyfus, quel conflitto politico e sociale della Francia tra 1894 al 1906, di un ufficiale accusato dai servizi segreti di spionaggio che tacciarono di tradimento e intelligenza con il nemico tedesco il capitano alsaziano, il quale era totalmente innocente; e fu poi riconosciuto come un inequivocabile errore giudiziario, avvenuto nel contesto dello spionaggio militare, ispiratore non di meno l’antisemitismo contro un brillante ufficiale classificatosi tra i primi, alla scuola di guerra. Du Paty, il suo accusatore, con un falso agire bonario appoggiò una mano sulla spalla del Dreyfus e dichiarò: «In nome della legge, la arresto. Lei è accusato di alto tradimento»; tre uomini in borghese si precipitarono su Dreyfus, lo afferrarono per le braccia e lo perquisirono. Egli oppose: «Sono innocente…Mostratemi le prove dell’infamia che avrei commesso!». Du Paty accusò sbrigativamente: «Le prove sono schiaccianti»; rinchiuso in una cella di segregazione Dreyfus ebbe il divieto assoluto di comunicare con l’esterno, anche con la famiglia; sulla scheda di incarcerazione non venne annotata alcuna accusa; il processo si svolse a porte chiuse. Il 22 dicembre 1894, all’unanimità, il tribunale lo condannò alla degradazione con infamia e alla deportazione perpetua ai lavori forzati nella colonia penale dell’ ‘Isola del Diavolo’, alla fine del marzo 1986; la moglie di Dreyfus fu sempre più convinta di un complotto ai danni del marito, allo stesso modo della signora Michela per il nostro Giuseppe. 

Ricorderò, ancora, il caso Sacco e Vanzetti, arrestati, processati e giustiziati sulla sedia elettrica negli Stati Uniti il 23 agosto 1927 con l’accusa di omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio «Slater and Morrill», per i quali a nulla valse la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che li scagionava A cinquant’anni esatti dalla loro morte, il 23 agosto 1977 Michael Dukakis governatore dello Stato del Massachusset riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti. Un pregiudizio anche verso di loro li condannò: erano italiani emigrati. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali.; peggio poi gliene incolse per essere entrati a far parte di un gruppo anarchico italo-americano. E certamente soggiacquero ad una forte volontà di perseguire una ‘politica del terrore’ suggerita dal ministro della giustizia Palmer e culminata nella vicenda delle deportazioni. Si trattava di un momento storico di intensa paura verso il comunismo; quello stesso sentimento che porterà i coniugi Rosemberg alla morte negli anni ’50.

Andrebbe altresì richiamato. il caso Tortora, talmente a conoscenza di chiunque da esser dunque solo accennato, che pur avendo portato a un referendum (detto “referendum Tortora”) volto a introdurre la responsabilità civile dei magistrati: referendum che la sancì con larghissima maggioranza, nonostante tale esito, con la legge varata dal Guardasigilli e ex-magistrato Giuliano Vassalli per la sua attuazione, a giudizio di molti si è snaturato il risultato del referendum, introducendo una versione estremamente debole di responsabilità, che di fatto veniva limitata al solo dolo specifico (cioè alla malafede del magistrato), difficilissimo da dimostrare. Solo nel 2014/2015 è stata riproposta e approvata dal Parlamento una legge simile a quella richiesta dalla consultazione referendaria. 

E nonostante il senso legalitario della cultura ebraica, gli stessi Giudici biblici non erano sempre dei leader religiosamente devoti o degli statisti eccezionali, ma più che altro individui ambiziosi. 

Ma fortunatamente – è più esatto dire disgraziatamente – è più frequente l’errore giudiziario, che non la mala fede: eclatante fu per me ciò che riempì i giornali della mia giovinezza catanese: il caso Gallo.

Due fratelli Salvatore e Paolo Gallo erano entrati in aspro conflitto; ad un certo momento Paolo sparì: fu deliberato in giudizio il classico caso dell’omicidio senza il cadavere; bene, il povero Salvatore scontò sette anni di carcere finché, grazie all’acume del giornalista de ‘La Sicilia’ Enzo Asciolla, fu ritrovato vivo il ‘defunto’ Paolo e Salvatore poté essere liberato, tuttavia subendo ad altro titolo una condanna senza pretesa di condivisibilità, e – ironia della sorte – non potendo godere neanche della grazia, in quanto provvedimento previsto per i colpevoli e non per gli innocenti, nonché sottomettendosi per la vita ad una grave forma di artrite buscata in cella, che lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Gli è stato negato pure il risarcimento per ingiusta detenzione.

Giustizia è fatta?