“Spettacolo di Fede” celebrato nella città di Palermo il 6 aprile del 1724

La Chiesa siciliana e il Governo asburgico vollero mostrare la loro vitalità politica e confermare il proprio potere con il controllo religioso e civile della società siciliana con l’Atto di fede del 6 Aprile del 1724, ultimo rito pubblico celebrato caratterizzato da uno stridente contrasto tra festa e dramma: festa per il trionfo della fede cattolica, della Chiesa e del Tribunale dell’Inquisizione e dramma per le terribili pene inflitte per reati prevalentemente di opinione a poveri infelici.

L’Atto di fede di Palermo del 1724, conclusosi con il rogo 1 di due eretici, rappresenta il momento finale della repressione dell’eterodossia all’interno di un più ampio tentativo di contenimento delle emergenti novità politiche e sociali che si diffondevano in Europa in quegli anni. Il Sacro Tribunale della Santa Inquisizione del Regno di Sicilia, il 6 marzo del 1724 emana un Bando per informare le autorità civili e militari, i parroci, i superiori degli Ordini Regolari, i familiari del Santo Uffizio, le confraternite e il popolo palermitano e siciliano che in quel tempo di Quaresima e cioè “… giovedì, che saranno li 6 di Aprile di quest’anno, si celebrerà Spettacolo di Fede,nel Piano della Metropolitana Chiesa ove tutti coloro, che si troveranno presenti, guadagneranno le Indulgenze concesse à loro da’ Sommi Pontefici…” . L’annuncio, oltre a contenere precise istruzioni sull’organizzazione dello “Spettacolo di Fede”, minaccia di Scomunica coloro che dovessero non rispettare le direttive impartite e assicura indulgenze con la remissione delle pene temporali dei peccati a chi le osserverà. La decisione è presa, su richiesta del Sant’Uffizio siciliano, dal viceré di Sicilia Joaquin Fernandez Portocarrero che in quegli anni lavorava alacremente per migliorare i rapporti politici tra la Monarchia austriaca e la potente e supponente nobiltà siciliana, ancora legata alla Spagna e ai suoi passati fasti. La riproposizione di un Autodafé per le strade principali della città- era rimasto nella memoria collettiva quello del 1658- poteva essere una utile occasione per richiamare il popolo al rispetto della religione e della legge-come allora intese- per ribadire l’importanza del Sant’Uffizio e del partito spagnolo con le loro pretese di supremazia sulla società, ancora vive dopo il deludente passato governo dei Savoia. Si era convinti che un Autodafé con una condanna a morte sul rogo dopo 66 anni, sarebbe stato per la città un avvenimento memorabile come il precedente ” dovendosi rinnovare tutta quella pompa, ed ordine che praticossi…in simile occorrenza”. Tornavano utili ai propositi, del Viceré e degli Inquisitori, due eretici quietistiimpenitenti segregati da tempo nel carcere dell’Inquisizione di Palermo.

 

L’Atto di Fede

La Chiesa e la Monarchia in Sicilia, quando gli interessi politici e la necessità di un più stringente controllo sociale lo richiedevano, con una attenta sinergia, autorizzavano la celebrazione di solenni “Atti di fede”, ovvero pubbliche complesse e sfarzose funzioni religiose penitenziali ma pure civili, per trasmettere alla comunità cristiana precisi significati e messaggi con intento catechetico. Con queste celebrazioni pubbliche si intendeva soprattutto confermare e valorizzare il compito di guida morale e civile e di contrasto dell’eresia del Sant’Uffizio e ribadire, con la crudeltà di quegli avvenimenti pubblici e con il terrore che suscitavano nel popolo, a motivo delle spaventevoli sanzioni irrogate ai rei, che a nessuno era consentito sfuggire la sicura e inevitabile giustizia umana, questa solo un blando anticipo su questa terra di quella futura dell’al di là. Doveva essere chiaro a tutti che a nessuno era consentito sconvolgere l’ordine sociale e infrangere le regole civili e religiose che le autorità preposte avevano il dovere, per volere divino e del monarca, di fare rispettare. Inoltre, l’Autodafé si offriva a tutti come occasione penitenziale da non perdere, a condizione di parteciparvi con fede e fiducia, per lucrare indulgenze simili a quelle che il Papa concedeva per i pellegrinaggi ai luoghi sacri della cristianità. Il Tribunale dell’Inquisizione, organo giudicante insieme religioso e laico, dipendente dal diritto canonico e dalla Corona, concludeva con quelle cerimonie la sua attività di correzione spirituale dei peccatori eretici, svolta anche per anni nel segreto delle carceri, chiamando il popolo tutto a parteciparvi per informarlo che, grazie al suo intervento, il male era stato allontanato da quei luoghi. Per il reo peccatore si aprivano le strade, secondo una complessa procedura legale, della morte, dell’ergastolo, del confino o del rientro nel contesto sociale solo dopo periodi di reclusione. L’Atto di fede di quell’anno fu autorizzato dal Re Carlo VI d’Austria, da Praga il 7 luglio del 1723. Di quella celebrazione del 5 e del 6 aprile 1724 ci è pervenuta una dettagliata descrizione (si riportano qui alcuni brani) dal Canonico palermitano Antonino Mongitore3 qualificatore del Sant’Uffizio, resoconto sicuramente di parte- infatti il committente fu lo stesso Sant’Uffizio- per l’enfasi con cui egli espone le giuste ragioni che motivarono quell’evento cittadino la lui definito “Spettacolo di fede”- definizione allora utilizzata. Altri 216 Autodafé – ma non tutti fastosi e pubblici come questo che ora qui si narra-, erano stati celebrati dall’inizio del ‘500 alla fine del ‘700 4, tutti dal popolo sempre apprezzati ma pure temuti. Gli Auto da fé del mondo spagnolo- quello palermitano ne è chiara dimostrazione- richiedevano per la loro complessità organizzativa il solerte impegno di autorità, architetti, maestranze, militari, parrocchie, ordini religiosi: praticamente tutta la città sospendeva le sue ordinarie attività per celebrare quei riti a “gloria della fede”.

Mongitore

Tutta la funzione penitenziale seguiva un rigido cerimoniale che nel tempo e nei diversi luoghi ovviamente subì modifiche e adattamenti, mantenendo però sempre fermi i suoi significati costitutivi, infatti, lo “Spettacolo di fede” doveva esse una immagine realistica della parusia biblica della fine dei tempi. Esso rispettava una precisa trama, nulla era lasciato al caso: editto di fede 5, liturgia penitenziale, sermone, processione, scelta di luoghi della città significativi per le diverse fasi dell’avvenimento, simbologie, abbigliamento dei partecipanti, tutto era predisposto nel rispetto delle gerarchie sociali e dei contenuti ideologici e teologici da comunicare. 

 

I rei

I protagonisti di quell’Atto di fede del 6 aprile 1724 erano la Santa Inquisizione siciliana e 28 infelici siciliani. Tra essi 26 condannati per peccati gravi o reati penali- al tempo non facilmente distinguibili- o per convinzioni ereticali 6: 17 uomini di cui 4 religiosi e 9 donne, tutti di modestissima condizione sociale o appartenenti al basso clero. La loro reclusione durava da anni sottoposti alle pesantissime condizioni della detenzione nelle carceri dell’Inquisizione dove con la torturaovviamente si era giunti, secondo la normale procedura giudiziaria di allora, alla confessione e ammissione dei reati loro contestati. Ma l’attenzione, l’interesse e l’attesa di tutti erano rivolti ad altri due condannati destinati al rogo, l’Agostiniano laico Fra Romualdo di Sant’Agostino di Caltanissetta di anni 58 e Gertrude Cordovana terziaria benedettina pure originaria di Caltanissetta di anni 57. Fra Romualdo e Suor Gertrude, da 25 anni la suora e 18 il frate soffrivano nelle carceri, ora, dato che entrambi rimanevano ostinatamente impenitenti, dall’Inquisizione la carcerazione, era stata permutata in condanna a morte da eseguirsi il 6 aprile di quell’anno. Nei tre giorni che precedevano l’Atto di fede–ci dice Mongitore- ben dodici teologi, inutilmente, si “ affaticarono intorno a’ pertinaci [Suor Geltruda e fra Romualdo] per riportarne la sospirata conversione”, per evitare loro con l’ assoluzione della Chiesa, la certezza dell’inferno e il tormento del fuoco eterno. La fermezza dei due religiosi nel non volere abbandonare le proprie convinzioni , come i primi martiri cristiani che intendevano imitare, rappresentava infatti un pericolo e una offesa per l’autorità religiosa ufficiale, timorosa che potesse suscitare in altri fedeli dubbi e perplessità sulla ortodossia delle ragioni dei Giudici del Sant’Uffizio, perché tesi da essi così eroicamente e pertinacemente respinte anche davanti alla morte.

 

I Teatri

Per l’occasione furono allestiti due “Teatri”, il principale nel piano della Cattedrale per la funzione religiosa il secondo molto più modesto nel piano di S. Erasmo per le due esecuzioni capitali.

Teatro” del rogo nel Piano di S. Erasmo
Il “Teatro” nel Piano antistante la Cattedrale per la celebrazione dell’Atto di Fede 
Inonotus tamaricis superficie fertile
Teatro” del rogo nel Piano di S. Erasmo – Francesco Cichè ci lascia con le sue incisioni una chiara attendibile testimonianza di quei momenti. (Incisione esposta al museo Diocesano di Monreale)
 
 

Nell’ampio spazio antistante la Cattedrale palermitana furono montati cinque distinti grandi palchi per ospitarvi le autorità: gli Inquisitori, il Giudice Ordinario, i Qualificatori e gli Avvocati del Santo Tribunale, il Capitano di Giustizia, il Promotore fiscale e altri burocrati e l’intero Senato di Palermo; apposito ulteriore spazio fu lasciato per i musici e per il coro. Il Viceré e l’Arcivescovo avrebbero seguito, non visibili ma paternamente vigili, da un balcone del prospiciente palazzo Arcivescovile. Ovviamente, non furono ignorate le consorti delle autorità di maggior rispetto che con le dame da loro invitare, trovarono predisposti comodi posti a sedere per godere la funzione in tutta la sua grandiosità. Sapendo che la celebrazione sarebbe durata parecchie ore e dunque defatigante per i convenuti, si approntarono riservate ampie cinque stanze con i necessari gabinetti per consentire momenti di riposo e per consumare il pranzo. Sul lato orientale del “Teatro” di innalzò un altare con ai lati due statue raffiguranti angeli, uno reggente una spada, l’altro un ramo di ulivo simboli della giustizia e della misericordia della Chiesa. Per la complessa e sfarzosa coreografia non si badò a spese per ornare tutto con broccati, damaschi, tappeti, velluti dai colori sgargianti, crocifissi d’argento, fregi d’oro, ecc. La liturgia con i suoi colori esprimeva i significati teologici che si volevano comunicare: il nero il lutto per l’offesa a Dio perpetrata dai rei, il violaceo il tempo della redenzione, il giallo colore del demonio e del male arrecato alla società, il verde la speranza nella giustizia di Dio e della Santa Inquisizione, rosso e oro la sacralità di quanto lì si svolgeva. Isolato dal contesto, in posizione emergente di fronte al solio degli inquisitori che per tutti simboleggiavano la Verità, si costruì il tablado per collocarvi i condannati, questo interamente ammantato da drappi neri con rami di mirto per indicare ai presenti con chiarezza, che quello era il luogo del peccato e dell’eresia; da lì i condannati avrebbero appreso la sentenza, la pena inflitta ed eventualmente dichiarata l’abiura8 dei propri errori. Il forte contrasto cromatico tra quel luogo plumbeo dove regnava il peccato, il dolore e la morte e lo spazio circostante, luminoso, ricco, con colori sgargianti, rappresentava e chiariva i diversi destini che attendevano nell’aldilà all’eretico e a chi invece obbediva alle leggi di Dio e del Monarca. Il Canonico Mongitore conclude così con ottima sintesi la descrizione di quel luogo” In questa forma apparve superbamente ornato tutto il Teatro la cui sontuosa pompa eccitò la meraviglia, e insieme la lode non solo de’ cittadini, ma anche della gran moltitudine de’ forestieri “.Il secondo Teatro allestito nel Piano di S. Erasmo” Per l’esecuzione della giustizia, che doveva piombare sul capo de’ Rei ostinati”, era realizzato con una struttura povera senza particolari orpelli e colori per la gravità e la violenza del rito che lì si sarebbe svolto. Il luogo del supplizio e del dolore colpevole doveva trovarsi distante dai luoghi dove regnavano la giustizia e la fede ovvero la città, il colpevole non apparteneva più alla comunità dei cristiani. Infatti il Piano di S. Erasmo si trovava oltre le mura della civitas vicino al mare. Lì si montarono alcuni palchi di ridotta dimensione per il Senato, per altre autorità e per il popolo: “per commodamente potersi vedere il bruciamento”. Si attrezzarono due fornaci con la legna da ardere per il rogo, due pali conficcati in terra con tre fori in ciascuno, due per inserirvi la corda per legare il condannato, il terzo con la corda per strangolarlo prima dell’accensione del rogo, nel caso in cui si fosse pentito dei suoi peccati all’ultimo momento e così avrebbe almeno evitato i tormenti del fuoco.

 

La processione penitenziale verso la Cattedrale

Gli inquisitori Giovanni Ferrer, Giuseppe Luzan e Biagio Antonio Oloriz pubblicarono il 21 marzo un secondo Atto generale con le disposizioni da osservare da parte di chi avesse il diritto-dovere di partecipare alle funzioni, quella del 5 sera più modesta in preparazione della complessa e sfarzosa funzione del giorno dopo che conteneva i riti centrali dell’Atto pubblico di fede. Con attenta regia, a tutti fu raccomandato di porre estrema attenzione agli orari, e al rispetto scrupoloso delle gerarchie e dei privilegi che stabilivano l’ordine delle precedenze dei gruppi partecipanti nei cortei e le collocazioni nel teatro. Inoltre, per prevenire incertezze e dubbi fu scritto “… si compiaceranno [le VV.SS] venir à comunicarli al S. Tribunale; acciò cha ad ogni cosa si dasse la dovuta provvidenza per non sortire disturbi, né contrasti veruni, con che si potesse recar pregiudizio alla comune quiete, e molto meno alla celebrazione dello Spettacolo Generale”. Ai condannati fu concesso lasera del 5 un pasto più abbondante del solito per prevenire possibili incresciose defezioni per crisi di debolezza fisica durante la processione rovinando così lo spettacolo. Il 6 aprile, giorno clou dei riti, la città fu svegliata dai rintocchi a morto delle campane delle chiese e fu vietato qualsiasi transito di carri e carrozze per le strade principali di Palermo, per l’occasione furono pavesate a festa le facciate dei principali palazzi e sospese le funzioni religiose nelle chiese. Al mattino, le autorità civili partecipanti: ministri, notai, medici, ufficiali del Fisco Regio, ecc., si riunirono in alcuni sontuosi palazzi messi a disposizione dai ricchi proprietari dove furono serviti adeguati rinfreschi; similmente fecero il clero regolare, gli ordini religiosi, i collaboratori del S. Uffizio che si adunarono nelle principali chiese di loro riferimento. All’imbrunire, giunto il momento stabilito, il corteo (è possibile dare soltanto una sommaria idea dell’imponenza e del gran numero dei partecipanti), si avviò dal Palazzo del Sant’Uffizio 9 verso il sagrato della Cattedrale, con in testa i condannati iniziando da quelli per reati minori, per ultimi i destinati al rogo. I 28 colpevoli indossavano ciascuno un sacco di colore giallo e un copricapo somigliante a una mitra vescovile e in mano una candela spenta per simboleggiare che avevano rifiutato il fuoco della Grazia, sarà accesa dopo l’abiura; numerosi soldati e la Congregazione della Pescagione vigilavano e li accompagnavano lungo il percorso. Dopo di essi un gruppo di oltre 200 tra nobili e titolati a cavallo, poi seguiva lo stendardo reale il Guidone, di seguito i fratelli della Compagnia della Vergine Assunta, gli Inquisitori, i Consultori e l’intero Senato, lo stendardo del Santo Uffizio, e ancora le Congregazioni dei Fanciulli dispersi e degli Orfani di S. Rocco. Poi gli Ordini regolari circa 500 religiosi tra Cappuccini, Scalzi della Mercè, Terz’Ordine di S. Francesco, Minimi di S. Francesco di Paola, Carmelitani, Agostiniani, Osservanti di S. Francesco, ciascun gruppo portava una croce velata in segno di lutto, in ultimo, i padri Domenicani con la Croce del S. Uffizio, l’unica non coperta da velo nero per significare che la fede in quel giorno aveva vinto sul peccato. 

La processione continuava con i preti regolari e le parrocchie e il coro dei musici che “con flebile canto svegliava affetti di somma devozione”. Il popolo inondò il piano della Marina e il Cassero. Si può facilmente immaginare che le strade si riempirono di venditori ambulanti, di famiglie festanti, tutti emotivamente eccitati e curiosi per quell’evento eccezionale. Il corteo procedendo per il Piano della Marina e per il Cassaro entrò nel “Teatro” antistante la Cattedrale.

 

Il sermone

Nel pomeriggio, durante la Messa dopo l’introito, giunta l’ora della lettura delle sentenze e del lungo sermone ufficiale (di cui si danno brevi cenni), salì sul pulpito e prese la parola il Domenicano Pietro Antonio Majorana, ma il vociare del popolo ne ostacolò l’ascolto. Il Domenicano afferma l’esistenza di una continuità nel merito e nel metodo tra quell’Atto di Fede in corso e il Giudizio divino della fine dei tempi per il “… pio modo di procedere del nostro Santissimo Tribunal della Fede che senza mai disunire dalla Pietà la Giustizia, aspetta per tempi e tempi la sospirata conversione de’suoi colpevoli”. Conversione, che nel caso dei due principali rei in giudizio- con grande disappunto degli Inquisitori- non era avvenuta perché i due religiosi non avevano mai voluto ammettere la veridicità dei peccati loro attribuiti, ritenendosi, in coscienza, perfettamente obbedienti alla volontà di Dio e alla vera religione che la Chiesa, che ora li accusava, aveva invece abbandone. Il predicatore non risparmia loro accuse pesantissime definendoli anche “Mostri orrendi di eretica pravità, Figlioli del Demonio, empj bestemmiatori, odiati da Iddio”.  Il sermone procede con elogi servili al Monarca, non tralasciando apprezzamenti per la Santa Inquisizione “Viva dunque per sempre in questo Fedelissimo Regno il Santo Tribunale della Fede …[che] con insolita gala rifiorisce e trionfa in questo giorno”. Al popolo raccomanda di apprezzare la bontà e lo zelo della Santa Inquisizione che “…per mantenere illibata nei vostri petti la Cattolica Fede, espongono agli occhi vostri le sozzure abominevoli dell’Eretica pravità [dei condannati] …mettendo in pubblico le cadute deplorevoli degli Apostati convinti, e condannati; e a fine di conservarvi stabili e fermi nei proponimenti ortodossi senza confondervi…”. Il Domenicano conclude la sua predica di esaltazione e giustificazione di quanto stava avvenendo in quel grande “Spettacolo”, con una frase biblica che egli considera giusta sintesi del contenuto teologico della sua predica ” Timete Dominum, et date illi honorem, qui venit hora Judicii ejus”. Finito il sermone iniziò la lettura delle sentenze mentre alle autorità e alle dame presenti per conforto e per sostenerne le fatiche furono offerti ulteriori “copiosi rinfreschi”.
 

I reati contestati ai 28 condannati 

Ultimato il discorso, fu data lettura dei reati e delle pene conseguenti comminate ai colpevoli. A sette di essi si imputava il reato di poligamia, a due di bestemmia ereticale, ad uno di frattura di immagini, a 13 di fattucchieria, sortilegi e fatture ereticali, a un frate di comunicare col demonio, a un laico di avere ascoltato confessioni e celebrato messa. Alle donne soprattutto, si imputava di essere operatrici dell’occulto, sortileghe e fattucchiere. Una suora fu condannata per aver falsamente accusato di sollecitazione un confessore. Le pene conseguenti furono- secondo la logica del tempo- di una severità inconcepibile per reati oggi di lieve rilevanza antigiuridica e in gran parte solo di opinione, ma per quei giudici i condannati avevano destabilizzato l’ordine pubblico e la pace sociale e inoltre le lunghe e pesanti detenzioni comminate dovevano servire per favorire la loro conversione spirituale. Le più frequenti pene furono l’esilio o il carcere o entrambi per oltre 3 anni, la condanna al remo sulle navi anche fino a 10 anni, in un caso l’ergastolo. Tutti abiurarono “De levi” ripetendo le formule canoniche prescritte. La complessa liturgia prevedeva pure l’esorcismo per allontanare il demonio da ciascuno di essi. Ben altra era la gravità delle colpe che i Giudici della Santa Inquisizione contestavano ai due religiosi di Caltanissetta perché accusati di aderire e diffondere teorie eretiche quietiste e moliniste. L’Agostiniano inoltre perché anche: “eretico formale relapso, avendo già abiurato “de veementi” nel 1703, impenitente e ostinatissimo”; la suora veniva condannata perché “eretica impenitente, pertinace e incorreggibile, superba, scandalosa ipocrita, temeraria, vanagloriosa”, e pure per simulazione di santità reato equiparato a quello di stregoneria”. Entrambi furono rilasciati al Braccio Secolare per l’esecuzione della pena del rogo. 
 

I rei sono accompagnati al Baluardo dello Spasimo per l’ultimo atto.

Nelle prime ore della notte, i 24 che avevano abiurato, portando ciascuno una candela ora accesa a significare la Grazia recuperata, furono riaccompagnati in processione per il Cassaro nel carcere dello Steri per iniziare ad espiare la pena. Gli inquisitori fecero ritorno al Palazzo del Sant’Uffizio perché, in quanto religiosi, non era previsto che assistessero al rogo. Il Senato, le autorità e le molte dame invitate, presero posto nei palchi del Teatro dell’esecuzione nel Piano di S. Erasmo, dove consumarono un altro “copioso rinfresco”. I due religiosi in processione si mossero dal Piano della Cattedrale e percorrendo il Cassaro, la via dell’Alloro e costeggiando il Monastero della Pietà , attraverso la porta dei Greci, giunsero al Piano di S. Erasmo e al Baluardo dello Spasimo dove li attendeva la morte.

Palermo nel XVIII secolo. In verde, percorso della Processione per condurre i rei dal Piano della Cattedrale al luogo del rogo (secondo Mongitore). 1: Piano della Cattedrale; 2: Chiesa S. Maria della Pietà e Chiesa di S. Mattia; 3: Palazzo Chiaramonte- Sede palermitana dell’Inquisizione, detto anche Steri, in Piazza Marina; 4: Porta dei Greci; 5: Baluardo dello Spasimo; 6: Piano di S. Erasmo luogo del rogo.

Mongitore ci rassicura che lungo il percorso ess:” Non furono però abbandonati dalla carità dei Teologi ne’ quali non era ancora spenta la speranza di guadagnarli… E tutti continuarono le loro ferventi esortazioni, e ultime, e salutevoli ammonizioni incessantemente per tutta la strada”. Tanto accanimento del clero ufficiale era motivato dal dovere che incombeva sugli inquisitori e sulle autorità ecclesiastiche di ricondurre i rei alla salvezza eterna. Nel luogo del patibolo a Suor Gertrude, sempre sperando che ammettesse le sue colpe, furono bruciati i capelli come assaggio dell’imminente sorte, ma inutilmente, perciò si accese il fuoco che l’avvolse e uccise” spirando l’anima per passare dal fuoco temporale all’eterno”, transito evidentemente dato per certo. A Fra Romualdo fu fatto vedere l’effetto del fuoco sul corpo della suora, non ottenendo da lui alcun cedimento fu abbandonato alle fiamme. Le ceneri dei corpi furono disperse poi al vento. Conclusosi l’Atto di fede tutti apprezzarono il buon esito dell’opera del Santo Tribunale conclusosi in quel luogo nel conservare la purezza della Santa Fede. Il nostro relatore, certamente per compiacere i membri del Sant’Uffizio che attendevano la sua relazione, non potendo concepire il rifiuto della conversione e dell’ammissione del peccato da parte dei due religiosi, ne trova la ragione non nella loro libera volontà di non voler ammettere un peccato non commesso, ma nelle parole di S. Bernardo “Perfidiae Martyres, e la loro costanza nasce dal Demonio, che ne indura il cuore, da lui pienamente posseduto”. (Ser.66in cant.). Mons. Giovanni Navarro Vescovo di Alvarrazin Inquisitore Generale di Spagna con dispaccio del 2 giugno informava il Re che con l’Atto Generale di fede celebrato in quel 6 aprile in Sicilia, si era rispettata la sua volontà e obbedito al comando del Levitico cap. 24, “ Qui blasphemaverit nomen Domini, morte miriatur”, e si era diligentemente provveduto ”…il sacrosanto coltello opportunamente recidesse la parte già cancrenata, affinché non si infettasse tutto il corpo”.

 

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NOTE

1) Il Rogo- Per la Chiesa e per le autorità civili siciliane fino a tutto il XVIII secolo l’eresia fu un crimine gravissimo terreno e divino assieme perché offesa alla maestà divina. La conseguente pena comminata nei casi più gravi era spesso la morte dell’eretico mediante il rogo che, oltre a distruggerne il corpo e i suoi pensieri eterodossi, ne preannunziava la futura dannazione eterna. Il rogo colpiva numerose forme di dissidenza equiparate all’eresia, quali soprattutto le pratiche magiche, divinatorie e la stregoneria. Si affermava, perseguendo l’eretico, di voler proteggere la comunità civile impedendo al Demonio di entrarvi con l’intento di distruggerne la pace e la concordia, che le autorità civili e religiose, per volere divino, dovevano difendere. Le ceneri dell’eretico venivano disperse per evitare che, collocandole in una tomba si potesse così creare un luogo di venerazione. Per accendere il rogo si sceglieva prevalentemente un luogo ai margini del contesto cittadino, per ribadire che il reo non apparteneva più alla comunità dei cristiani e come la zizzania del passo evangelico, era stato tolto dal buon campo di grano dei credenti. 

2) Quietismo- Nel 1682 l’arcivescovo di Napoli Innico Caracciolo segnalava al Papa il preoccupante diffondersi nella sua Diocesi, soprattutto nei conventi, di teorie e pratiche religiose non autorizzate che avevano origine dagli scritti di un religioso spagnolo, Miguel Molinos. Coloro che le adottavano, informa l’Arcivescovo“ vanno acquistando nome di Quietisti… se ne stanno in somma quiete e silenzio muti, e come morti: e perché intendono di fare orazione mentale passiva, … senza osservarle regole, e metodi, e senza le precedenti preparazioni de’ punti, e lezioni spirituali, che massimamente a’ principianti sogliono assegnarsi da maestri di spirito per la meditazione, e senza attendere a vedere col lume della meditazione i proprij difetti, passioni, ed imperfezioni per emendarsene”.  Come si comprende dal brano qui riportato, il prelato rappresentava la sua preoccupazione, non tanto perché i cosiddetti quietisti si impegnavano nelle solite pratiche di orazione, anche se con originale metodo, ma perché presumevano di poterlo fare” da per loro”, senza la guida della Chiesa. E dunque autonomamente ricercavano un presunto stato di quiete e passività del corpo e della mente, con l’annullamento della volontà personale, per stabilite con Dio una soprannaturale unione che annullava, secondo loro, la responsabilità morale dei comportamenti personali. Accettando questo nuovo paradigma di fede il quietista riteneva perciò superflui, anzi inutilmente imposti dalla Chiesa, i sacramenti, le pratiche di pietà, la venerazione dei santi, la confessione prima della comunione, la liturgia, la morale sessuale e soprattutto l’obbedienza e la guida spirituale del clero ortodosso non quietista. La Chiesa romana, se in un primo tempo forse non comprese pienamente l’eterodossia delle nuove forme di ascesi, successivamente individuò nel quietismo chiari elementi che lo ponevano in pericolosa continuità con tendenze e pratiche religiose e “insorgenze mistiche” popolari del passato, soprattutto con le eresie pelagiane e alumbrados. Si giunge così alla condanna di Innocenzo XI delle proposizioni di quel falso dogma definito il “veleno della quiete”, “pestifera radice” con la Bolla Coelestis Pastor del 1687. In Sicilia il Santo Uffizio, si attivava per combattere le nuove tesi con la censura che fu applicata con severità ai libri e scritti di contenuto spiritualenon solo quietista, agiografie, e ai manuali di perfezione cristiana. Nelle maglie dell’Inquisizione cadevano molti, sacerdoti, direttori spirituali, ma soprattutto suore e laiche chiamate bizzocche che, in possesso di presunti particolari doni mistici, guidavano spiritualmente al posto del clero, gruppi di fedeli quietisti. In Sicilia fin dal 1685 il molinismo si sviluppò soprattutto a Palermo e a Caltanissetta avendo come principali centri di diffusione i conventi domenicani. I processi siciliani per quietismo tra la fine del seicento e i primi anni del settecento videro comminare dall’Inquisizione condanne molto dure e soprattutto favorirono la ripresa degli Auto de fé. 

3) D.D. Antonino Mongitore, Palermo 1663- Palermo1743. Sacerdote Canonico della Cattedrale di Palermo e qualificatore del Santo Uffizio, autore di agiografie e testi su argomenti di ambiente siciliano e del resoconto dell’Autodafé palermitano del 5 e 6 aprile del 1724.

4) Autodafé dell’Inquisizione spagnola in Sicilia: 133 celebrati nel XVI secolo; 65 nel XVII secolo; 18 nel XVIII secolo. 

5) Editto di fede- Gli Inquisitori prima di procedere nella loro indagine alla ricerca della esistenza di eresie in una località di loro giurisdizione, emanavano due editti pubblici , uno di fede, che imponeva a tutti gli abitanti di denunciare presunti eretici e i loro complici- ne conseguiva ovviamente che chiunque per i più vari motivi rischiava di poter essere denunciato- l’altro di grazia, che stabiliva un termine, prevalentemente un mese, durante il quale gli accusati dovevano presentarsi spontaneamente al collegio degli Inquisitori per difendersi. 

6) Peccato di eresia- Il peccato di l’eresia, è definito nel Code iuris canonici (can.751) «errore volontario e pertinace di un cristiano contro una verità che si deve credere per fede divina e cattolica». Al reato di eresia erano associati vari comportamenti: bestemmia, usura, atti sessuali condannati, contrasto e convinzioni erronee sui riti della Chiesa e altro. Esso era definito “materiale” quando, per il giudice, il soggetto non era pienamente consapevole della sua errata credenza religiosa; “formale” quando vi era consapevolezza e accondiscendenza.

Il diritto inquisitoriale distingueva ancora tra il “peccato di eresia” quando l’errore restava solo nella coscienza del reo e il ”delitto di eresia” quando l’eretico manifestava ad altri per convincerli le proprie convinzioni eterodosse. 

7) La tortura- Realtà complessa per i suoi tanti significati giuridici, teologici e sociali. La tortura giudiziaria attuata in Europa fino agli albori del XIX secolo, era una forma legale di pena corporale prevista sia come strumento di purificazione e penitenza spirituale in relazione al reato di eresia, sia come mezzo per giungere alla verità di un’idea, di un fatto contestato o alla denuncia di eventuali correi. Essa era prevista pure come necessario e definitivo passaggio della procedura inquisitoriale, perché considerata «Regina delle prove», ovvero unica prova certa e definitiva superiore a qualunque altro tipo di testimonianza. I manuali seguiti da inquisitori e teologi ne consigliavano l’applicazione anche in quei casi in cui, pur essendo il tribunale già in possesso delle prove cercate, e perciò ormai praticamente inutile ai fine del processo, con i tormenti si voleva liberare lo spirito del reo dai peccati e favorirne la conversione a Dio. La tortura fisica e psicologica, nei tanti anni in cui essa fu applicata in Europa anche per lievi reati, tra questi la bestemmia, ingiurie, accattonaggio, favoreggiamento di evasi, prostituzione… si aggiungeva, quale ulteriore pena afflittiva, alle consuete pene giudiziarie. La sorte dell’inquisito dipendeva, teoricamente dalle regole normate dal potere civile e dalla Chiesa ma, soprattutto nei tribunali periferici, erano frequenti gli abusi e le valutazioni soggettive dei giudici e degli inquisitori. Se sotto tortura l’inquisito, uomo o donna, resisteva ai tormenti senza confessare quanto ci si attendeva, il giudice poteva conclude che avesse con la sofferenza purgato le sue colpe e Dio gli avesse concesso la forza per resistere al dolore e dunque veniva liberato; oppure poteva sospettare che la forza provenisse dal demonio e conseguentemente imponeva altre fasi di tortura fino alla inevitabile conferma di quanto egli voleva che il torturato confessasse. La norma, anche questa non sempre rispettata, prevedeva che alla tortura, assistesse un collegio di testimoni per controllarne la corretta applicazione: giudice, vescovo o un suo delegato, un segretario verbalizzatore, un medico e figure con altre funzioni. All’inizio del Settecento furono pubblicati numerosi trattati soprattutto di teologia morale nei quali si criticava l’impiego della tortura, demolendo l’utilità del supplizio proprio sul piano giudiziario, perché si ammise, ma ci volle molto tempo, che le vittime, non reggendo alle sofferenze finivano per confessare colpe non fatte e denunciavano anche degli innocenti. Ormai erano maturi i tempi per l’abolizione della tortura giudiziaria

8) Abiura- Era l’atto di ritrattazione sotto giuramento e davanti a testimoni dei propri errori di fede. La complessa casistica, che nel tempo e nei diversi luoghi fu soggetta a modifiche, distingueva più livelli di abiura in base al convincimento dei giudici sulla reale rinuncia dell’imputato alle idee eretiche contestate e non giustificate. Con l’abiura si evitava la scomunica e la pena di morte ma non pene afflittive anche gravissime e tra queste di dover portare il sambenito (caratteristico abito penitenziale) anche per tutta la vita, il sequestro dei beni, e l’emarginazione della famiglia dalla comunità. Chi ricadeva nell’eresia, ovvero nel “vomito”, come si affermava, rischiava la condanna a morte. 

L’Abiura era definita: “De levi”, se il reo ritrattava ma per i giudici restavano ancora deboli ma non provati indizi di eresia; “De veementi sospetto”, ovvero se vi era ritrattazione, ma permaneva il dubbio della sussistenza di una grave eresia; “De formali”, quando i giudici avevano pienamente accertato la validità della ritrattazione dell’eresia.

L’abiura per essere “piena” imponeva anche la delazione a carico di altri eretici. L’eretico caduto nella scomunica con l’eresia, con l’abiura era assolto e riconciliato. Se vi ricadeva diveniva “relapso” e ipso fatto destinava la sua anima all’inferno e se scoperto consegnato al “potere secolare” che gestiva l’eventuale condanna a morte.

 

9) Palazzo Chiaramonte- Sede palermitana del Santo Uffizio , detto anche Steri, da Hosterium, in Piazza Marina Palermo.

 

Tabella dei rei e sanzioni

Condizione sociale del reo Reato Livello di ritrattazione degli errori di fede Pena: Tutti umiliati nell’Autodafé del 6 aprile del 1724 e ulteriori sanzioni:
suora Falsa testimonianza, per accusa di sollecitazione Abiura de levi 2 anni di carcere e 3 di esilio.
non nota Bestemmiatore Abiura de levi 1 anno di esilio
contadino Bestemmiatore ereticale Abiura de levi. Assoluto ad cautelam. con mordacchia e 3 anni di esilio
calzolaio Bestemmiatore ereticale. Frattura di immagini sacre Abiura de levi. Assoluto ad cautelam. 3 anni al remo senza paga e esilio per tre anni

chierico

Sortilego e bestemmiatore ereticale

Abiura de levi. Assoluto ad cautelam.

3 anni di segregazione in convento; 2 anni di esilio

cuoco Poligamo Abiura de levi. 3 anni di esilio
paggio Poligamo Abiura de levi. 3 anni al remo sulle navi
calzolaio Poligamo Abiura de levi. 3 anni al remo sulle navi
contadino Poligamo Abiura de levi. 3 anni al remo
contadino Poligamo Abiura de levi. 3 anni al remo
beccaio Convinto di poligamia Abiura de levi. Al remo per 5 anni
diacono Poligamo similitudinario.Contrattomatrimonio Abiura de levi. Carcere per 5 anni e 5 anni di esilio
  Sortilego ereticale Abiura de levi. Esilio per 3 anni
  Sortilega Abiura de levi. Anni 3 di esilio
  Sortilega Abiura de levi. Anni 1 di carcere
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi. Anni 1 di esilio
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi. Frusta e 5 anni di carcere
frate Sortilego.Proposizioni ereticali Abiura de levi. Anni 3 di servizio in ospedale
frate Comunicazione con il demonio. Sortilego Abiura de levi. Assoluto ad cautelam Anni 5 di reclusione in convento
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi. 5 anni di carcere
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi e 5 anni di carcere
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi. Assoluta ad cautelam 200 frustate e 5 anni di carcere
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi. Assoluta ad cautelam 200 frustate e 5 anni di carcere
  Sortilega e fattucchiera Abiura de levi. Assoluta ad cautelam 200 frustate e 7 anni di carcere
  Sortilegi e superstizioni, penitenziato (già carcerato e recidivo);celebrato messe econfessioni Abiura de levi Frusta, ergastolo
  celebrato messe; ascolto di confessioni; fuga dal carcere Abiura de levi Al remo su nave per anni 10
Suor Gertrude Cordovana Eretica formale; Molinista; Quietista; Ostinata negli errori Impenitente Rogo
Fra Romualdo di Sant’Agostino Eretico formale; Molinista; Relasso; Settario; pertinace negli errori Impenitente Rogo

 

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Riferimenti bibliografici

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