Don Giovanni d’Austria: Il monumento della Città in dismissione

 ‘U me cori è chinu di tristizza / vidennuti ridutta a ‘sta manera / chi cantuneri chini di munnizza / tu chi da’ Sicilia eri ‘a bannera

Così il Poeta[*] piange  sulla sua città sempri da’ svintura visitata, la Messina chi c’era / quannu Roma era campagna.

C’è un monumento, unico e negletto, che rappresenta un pezzo della storia di quella Messina che fu, la statua a don Giovanni d’Austria; ma pochi sanno chi fu costui e perché venne così celebrato.

Una copia della statua originale si trova a Ratisbona, nome tedesco Regensburg, posta su un piedistallo simile a quello della città di Messina; l’epigrafe centrale porta la seguente iscrizione, di cui si dà la traduzione, che riassume la storia del personaggio:

Don Giovanni d’Austria, figlio dell’imperatore Carlo V e Barbara Blomberg, fratello del re Filippo II di Spagna, governatore dei Paesi Bassi, nato a Regensburg il 24.2.1547, morto a Namur il 2.10.1578. Quale ammiraglio delle forze riunite spagnola, pontificia e veneziana, don Giovani d’Austria annientò la flotta turca nella decisiva battaglia di Lepanto del 7 ottobre del 1571 e difese il  cristiano Mar Mediterraneo dalla minaccia dell’egemonia turca. Il senato di Messina nell’anno 1572 ha onorato il vincitore mediante l’erezione di una sua statua, opera dell’architetto e scultore Andrea Camelech. In occasione del 400° anniversario della morte del grande figlio della nostra città, la cittadinanza di Regensburg produsse una seconda copia di questo monumento nell’anno 1978.

Molti scritti e documenti descrivono la storia di quel tempo.[*]

Nel XVI secolo, quando nuovi profeti intorbidivano le acque di una cristianità stagnante, l’imperatore Carlo V d’Asburgo dominò la vita politica dell’Europa; egli fu l’ultimo sovrano medievale per il quale l’unità politica e religiosa della cristianità fu non solo una meta ideale, ma anche un concreto progetto politico.

Carlo V con una fitta ragnatela di parentele e alleanze matrimoniali, di fronte ai quali non contavano i sentimenti degli interessati, riuscì a unificare in maniera del tutto pacifica buona parte del continente: passando attraverso i nonni paterni Massimiliano I d’Asburgo e Maria di Borgogna, quelli materni Ferdinando II il Cattolico e Isabella I di Castiglia, i genitori Filippo I il Bello e Giovanna la Pazza, attraverso la sposa Isabella del Portogallo, il fratello Ferdinando I e il di lui figlio Massimiliano II, le sorelle Eleonora Isabella Maria e Catalina, i figli legittimi Filippo II Maria Giovanna ad esclusione di don Juan e don Fernando morti infanti, e di quelli illegittimi Giovanna Margherita Taddea e il nostro don Giovanni, egli realizzò il progetto perseguito dai suoi avi sin dal 1300.

Anche la Sicilia, che dopo la cacciata degli angioini nel 1282 si era messa sotto la tutela degli Aragonesi, ai quali dopo tante lotte e vicende era stata affidata con la pace di Caltabellotta del 1302, ora faceva parte di questo vasto impero, governata direttamente da un viceré.

Nell’ottobre del 1535 Carlo V, trovandosi vicino dopo la vittoriosa impresa di Tunisi, volle visitare l’isola baciata dal sole; dovunque gli furono tributati onori trionfali e infine, quando il 3 novembre ripartì da Messina, portò con sé 10.000 scudi d’oro, le tele di Polidoro di Caravaggio, le prose e i versi latini di Francesco Maurolico e ancora nelle orecchie il frastuono gioioso della vivace popolazione siciliana.

Questo il contesto in cui si inserisce don Giovanni d’Austria.

Nacque da un occasionale incontro dell’imperatore con Barbara Blomberg, figlia del fabbricante di cinture Plumberg e di Sybille Lohmair; la sera del 2 maggio 1546 il camerlengo Adriano Dubois accompagnò nella camera del sovrano la graziosa biondina, naturalmente col consenso del padre. Secondo le affermazioni di una conoscente che l’assistette sino al parto, ella era vergine de casta vida y muy muchacha; in seguito avrebbe sposato Girolamo Kegell, commissario e procuratore generale dell’esercito spagnolo nei Paesi Bassi.

Il bambino nacque il 24 febbraio del 1547 e gli fu dato nome Giovanni; dopo qualche anno fu affidato al violinista Francesco de Massi e andò a vivere con lui in Castiglia, in seguito fu affidato al barone Luis de Quijada per avere un’educazione più adeguata.

In un quadro di Eduardo Rosales del 1868 è raffigurato Carlo V che già in precarie condizioni di salute riceve la visita del giovanissimo figlio naturale e guarda con ammirazione il bellissimo ragazzo.

Per alcuni anni Giovanni visse a corte fino a quando Filippo II, successo alla morte del padre nel 1558, non decise di mandarlo a studiare prima a Salamanca e poi a Cordoba; ma più che negli studi rivelò ben presto eccezionali attitudini militari e ottenne dal fratellastro incarichi di fiducia: nel 1568 a 21 anni ebbe il comando di una flotta oceanica destinata a scortare un convoglio carico d’argento dalle Azzorre a Cartagena e il giovane ammiraglio seppe difenderlo egregiamente dall’attacco di corsari marocchini; dopodiché nel 1569 ebbe la nomina a generalissimo nella lotta contro i moriscos del mezzogiorno della Spagna e riuscì a disperderli.

Queste due vittorie gli fecero guadagnare il comando indiscusso della flotta coalizzata che affronterà i Turchi a Lepanto.

Il contesto è quello di una lotta per il controllo del Mediterraneo; benché tra Oriente e Occidente gli scambi di persone merci denaro e tecniche fossero sempre intensissimi, il crescente espansionismo ottomano in quegli anni preoccupava sempre più i governi dell’Occidente, esso minacciava non solo i possedimenti veneziani come Cipro, ma anche gli interessi spagnoli per via della pirateria.

Già l’11 maggio del 1560 Piali Pascià aveva inflitto una pesante sconfitta presso l’isola di Gerba alla flotta comandata da Gianandrea Doria: furono catturate o distrutte 27 delle 83 galee cristiane  e altri legni minori, 18.000 uomini vennero uccisi o fatti prigionieri.

Galvanizzati dal successo, i Turchi tra il maggio e settembre del 1565 posero l’assedio a Malta; non riuscendo a costringere alla resa la cittadella, si diressero verso l’Italia e saccheggiarono l’isola di Scio.

Nel 1570 il nuovo sultano Selim II muoveva guerra a Venezia, cinse d’assedio Nicosia e il 9 settembre l’espugnò.

 Consapevole di questa tensione crescente, il papa Pio V ritenne allora propizio il momento per coalizzare in una Lega Santa le forze divise della cristianità, alimentando lo spirito di Crociata per creare coesione intorno all’iniziativa: promosse preghiere solenni e processioni di penitenza, rivolse parole gravi e commosse alle potenze cristiane esortandole a unirsi contro gli aggressori.

I suoi sforzi condussero solo a un concentramento nelle acque di Creta di una flotta di 187 legni, che però si sciolse alla fine del 1570 a causa di antiche e nuove rivalità tra gli associati e grazie alla complicità della  Francia, che per i suoi interessi geopolitici incoraggiava e finanziava i Turchi per indebolire la casa degli Asburgo, suo tradizionale nemico.

La tenacia di Pio V fu premiata l’anno successivo quando il 25 maggio nella basilica di San Pietro fu proclamata ufficialmente la Santa Lega, firmata tra la Santa Sede, la Spagna con il regno di Napoli e di Sicilia, Venezia, Genova, Lucca, i Cavalieri di Malta, i Farnese di Parma, i Gonzaga di Mantova, gli Estensi di Ferrara, i Della Rovere di Urbino, il duca di Savoia, il granduca di Toscana; le spese furono divise fra Spagna Venezia e il Papa.

Il comando della flotta pontificia fu affidato a Marcantonio Colonna; l’11 giugno in San Pietro gli fu consegnato lo stendardo, un drappo rosso su cui era dipinto il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo.

Per appianare i dissidi sorti a seguito delle lunghe trattative con Filippo II, fu deciso di affidare il comando a don Giovanni d’Austria, rimanendo il Colonna suo Luogotenente Generale anche per volontà dei Veneziani.

Don Giovanni si trovava in Spagna quando ricevette il breve pontificio che gli conferiva il comando supremo; giunse a Napoli in agosto e il 14 nella basilica di Santa Chiara dal viceré cardinale di Granvelle gli fu consegnato solennemente il suo stendardo, un telo  di seta cremisina con l’immagine del Crocifisso.

Come base di raduno dell’armata cristiana fu scelta Messina, situata in posizione strategica rispetto al teatro delle operazioni. Qui a partire dal luglio 1571, dopo mesi di difficoltose trattative, si incontrarono le flotte alleate e ai primi di settembre la flotta della Lega era tutta riunita nel porto siciliano. Essa risultava così composta: 12 galee del papa armate dal granduca di Toscana di cui 5 equipaggiate dai Cavalieri di Santo Stefano, 10 galee di Sicilia, 30 galee di Napoli, 14 galee di Spagna, 3 galee di Savoia, 4 galee di Malta, 27 galee di Genova di cui 11 appartenenti a Gianandrea Doria,  6 galeazze e 109 galee di Venezia di cui 60 giunte da Candia;  in totale erano 209 galee, di cui 203 o 204 avrebbero preso parte alla battaglia, 6 galeazze veneziane oltre ai trasporti e al naviglio minore; l’equipaggiamento era composto da 28.000 soldati, 12.920 marinai, 43.500 rematori, 1815 cannoni.

Il 23 agosto, acclamato da tutti, giunse a Messina don Giovanni e il 16 settembre la flotta della Lega, seguendo le preziose indicazioni fornite dal Maurolico, salpava muovendosi con velocità differenti. Il 4 ottobre successivo si trovò riunita nel porto di Cefalonia e qui giunse la notizia della caduta di Famagosta  e dell’orribile fine inflitta a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la fortezza. Appresa dunque la notizia, nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare e il 6 ottobre giunsero davanti al golfo di Patrasso, nella speranza di intercettare la flotta ottomana.

Anche i Turchi, venuti a conoscenza dell’avvicinarsi della flotta cristiana, avevano messo in allarme tutta la loro forza: 34.000 soldati, 13.000 marinai, 41.000 rematori, 216 galee, 64 galeotte e 64 fuste, 750 cannoni, al comando dello sceicco Alì Muedhin Zadeh Pascià.

La domenica 7 ottobre le due flotte si trovarono di fronte nel golfo di Lepanto, Efpaktos per gli abitanti e Inebanti per i turchi, tra Patrasso e Corinto.

Don Giovanni alla vista del nemico mostrò una tale esultanza che “si mise a ballare la gagliarda con due cavalieri sul ponte d’armi della sua galea”; visitò i suoi vascelli comunicando entusiasmo a tutti; ritornato sulla nave ammiraglia inalberò lo stendardo della spedizione per infondere alla lotta un carattere sacro; una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l’assoluzione secondo l’indulgenza concessa dal papa per la crociata.

Le due flotte si erano allineate l’una di fronte all’altra, nello stesso luogo dove si erano affrontati Marcantonio e Ottaviano per l’impero del mondo: la flotta turca formava un semicerchio, una enorme mezzaluna di 150 miglia che dalle coste montagnose dell’Albania a nord arrivava alle secche della Morea a sud; quella cristiana era schierata in formazione a croce con le 6 galeazze davanti.

L’azione cominciò verso mezzogiorno: il primo colpo di cannone partì dall’ammiraglia turca, cui don Giovanni rispose con una scarica mostrando di accettare la sfida.

La lotta infuriò con alterne vicende, dura e implacabile: sull’ala sinistra i turchi dapprima sbaragliarono i veneziani di Barbarigo, ma quando col sopraggiungere dei rinforzi il loro comandante Mehemet Sciaulaq detto  Scirocco cadde ucciso, si diedero alla fuga riparando sulla costa; sulla destra i genovesi di Gianandrea Doria ebbero la meglio sui turchi di Uluc Alì, un apostata di origini calabresi convertito all’Islam detto Ucciallì o Occhiali, considerato il migliore comandante ottomano.

Ma la battaglia si decise al centro:  Alì Pascià cercò e trovò la galea di Don Giovanni d’Austria, la cui cattura avrebbe potuto risolvere lo scontro; le due navi si scagliarono l’una contro l’altra con tale violenza che i loro rostri si frantumarono, attrezzi e pennoni si aggrovigliarono; così avvinghiate formarono un campo di battaglia mobile dove attacchi e contrattacchi si susseguirono senza tregua e don Giovanni ferito a una gamba sembrava avere la peggio; malgrado il fumo degli archibugi e di cannoni, accorsero in aiuto le navi di Sebastiano Venier e di Marcantonio Colonna e lo scontro continuò furibondo; molti furono gli episodi di eroismo, i ponti grondavano sangue e i feriti precipitati in mare continuavano la lotta fino all’estremo. A un certo punto Don Giovanni con una mossa audace fece liberare i galeotti della sua nave e questa turba piombò sui Turchi pazza di gioia per la libertà avuta; i galeotti turchi, in gran parte cristiani tenuti alle catene, anch’essi liberati, ingrossarono le file degli alleati facendo espiare ai vecchi oppressori le sevizie della schiavitù.

Il comandante in capo ottomano Alì Pascià, già ferito, cadde combattendo; la sua nave fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona e, contro il volere di don Giovanni, il cadavere fu decapitato e la sua testa esposta sull’albero dell’ammiraglia spagnola. La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei turchi; di lì a poco infatti le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente.

Erano trascorse quasi cinque ore e il giorno volgeva ormai al tramonto quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.

Il teatro della battaglia presentava uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti e uomini agonizzanti.

Le perdite da entrambe le parti furono enormi: i Turchi perdettero 30.000 uomini e tra questi il loro capo e una decina di pascià, 8.000 furono fatti prigionieri, 15.000  rematori cristiani furono liberati, 80 galee e 27 galeotte furono affondate, 130 catturate; per la Lega i morti furono quasi 8.000, di cui 800 veneziani 2000 spagnoli 800 pontifici, 2.000 rimasero feriti, fra questi Miguel Cervantes che “peleò como debia un buen cristiano y soldato tan valente”, 15 galee furono affondate e molte altre danneggiate.

Durante lo svolgimento della battaglia Pio V aveva invitato tutti alla preghiera del Rosario e a fare processioni; 24 ore prima di conoscere il risultato dello scontro, diede l’annuncio della vittoria facendo suonare tutte le campane di Roma; disse che aveva avuto una visione della Madonna del Rosario.

Come sigillo di quella certezza, in seguito fece inserire nelle Litanie Lauretane l’invocazione Maria auxilium chistianorum e con la bolla Salvatoris Domini decretò che il 7 ottobre fosse dedicato a Santa Maria della Vittoria; l’anno successivo papa Gregorio XIII con la bolla Monet Apostolus trasformò questo anniversario nella festa del Madonna del Rosario.

Anche il Senato veneziano attribuì  il merito della vittoria alla Santissima Vergine e sul quadro dipinto nella sala delle adunanze fece scrivere le parole Non virus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit.

Grazie a questa vittoria si pose fine nel Mediterraneo all’egemonia dei Turchi e dei pirati nordafricani al loro servizio, e si fermò la penetrazione turca in Europa; questa vittoria ebbe soprattutto un forte significato simbolico, perché a meno di un decennio della fine del Concilio di Trento rafforzò l’esaltazione del mondo cattolico nell’area italo-spagnola.

Tuttavia la battaglia di Lepanto, così decisiva sul piano tattico, fu pressoché inutile su quello strategico a causa del repentino sfaldamento della coalizione cristiana dovuto alle risorte rivalità e gelosie tra gli alleati, soprattutto fra Spagnoli e Veneziani. Pertanto già nel 1573 Venezia fu costretta a cedere Cipro alla Turchia e l’Ucciallì a capo della flotta ottomana riconquistò Tunisi occupata prima da Carlo V.

Dopo la vittoria a Messina ritornarono soltanto gli Spagnoli e i Pontifici.

La Città fu prodiga  di onori per i vincitori: archi trionfali luminarie concerti furono imbanditi, i combattenti ospitati degnamente, i feriti amorevolmente curati nel Grande Ospedale Civico, le navi riparate nel cantiere navale; il 2 novembre l’Arciduca, Marcantonio Colonna e i maggiori capitani, con al seguito i Senatori i nobili e il clero della Città, con una variopinta e solenne cavalcata attraversarono le strade  tra due ali di folla tripudiante; Viva Missina e l’aquila riali / finiu la notti e surgiu lu suli / è patruna la Cruci supra u mari / sunnu morti li cani tradituri.

Nel 1572 il Senato messinese decretò di erigere una statua a memoria dell’impresa; fu commissionata allo scultore carrarese Andrea Calamech e l’anno successivo fu posta nella Piazza Reale nei pressi dell’attuale Palazzo di Giustizia.

La statua in bronzo raffigura don Giovanni d’Austria che calpesta la testa del turco Alì Pascià in segno di vittoria; ha un’espressione maschia e maestosa, elegante nei suoi tipici calzoni; “l’habito assai comodo et buono vestito soldatesco prima usato da marinai, fu abbracciato da tutti indifferentemente” e nelle varianti spagnola o francese o valdostana divenne la moda del tempo.

Nel basamento marmoreo che sorregge la statua troviamo quattro prospetti con altrettante tavole in bronzo: nella principale c’è una iscrizione che ricorda la costituzione della lega contro i Turchi, la data di partenza da Messina, la data della battaglia e del ritorno in città, il numero delle navi e i nomi dei Senatori del tempo; nel bassorilievo a sinistra troviamo la disposizione della flotta con al centro la nave reale di don Giovanni; nel terzo bassorilievo è ritratta la battaglia, si leggono varie mischie tra le navi con alcune barche turche già in fuga; nell’ultima tavola è raffigurato il ritorno della flotta vittoriosa a Messina con in alto una interessante pianta della Città del XVI secolo a volo d’uccello.

La statua seguì le sorti della Città: nel 1674 durante la rivolta contro gli Spagnoli fu danneggiata da una cannonata nemica, subì danni nel terremoto del 5 febbraio 1783, durante la rivoluzione del 1848 fu colpita in diverse parti; finalmente restaurata nel 1853 fu trasferita nella piazza dell’Annunziata e da quel luogo all’alba del 28 dicembre 1908 sovrastava le macerie fumanti della Città distrutta dal terremoto; nel 1928 dopo tante vicissitudini e non poche polemiche la statua fu posta nella piazzetta  dei Catalani dove adesso si trova.

Dopo Lepanto don Giovanni rimase ancora nel Mediterraneo conseguendo qualche successo contro i Turchi; nel 1574 divenne luogotenente generale d’Italia e nel 1576 fu nominato governatore e capitano generale delle Fiandre; nel 1578 riprese la guerra contro coloro che non avevano voluto accettare i deliberata degli Stati Generali firmati a Gand l’anno prima, e combattendo contro i Fiamminghi morì a Bouges oggi parte della città di Namur; le sue spoglie oggi riposano a Madrid nell’Escorial.

Don Giovanni d’Austria fu il più famoso e valente ammiraglio e generale del suo tempo, uno dei migliori collaboratori di Filippo II nello sviluppo della sua politica.

Quel monumento, divenuto lurido posatoio per i colombi, resta lì a ricordare:

A Missina succidiu ‘u radunu / da’ flotta navali di’ cristiani … ‘U figghiu  du re Carlu era ‘u capu / gagliardu baldanzusu e figghiuleddhu ,,, Parteru tutti in fila pi lu mari / i navi sbannirannu la bannera / da’ Vergini Maria supra ‘i pali / pi’ vinciri li Turchi cu la guerra … ‘A mezzaluna a mari fu jittata / e a Cruci di Cristu splinnenti / supra ‘u palu cchiu iautu fu isata / purtannu ‘a paci a l’Occidenti.

Così canta il nostro Poeta[*], e piange ancora su una Città distratta e indolente:

Missina è ‘na città sbaddhillata / cori da’ Sicilia, terra adurata / ma tantu beddha quantu svinturata … Nni  ridducemmu  assai  malamenti / cu ‘na manu arredi e l’autra avanti / e semu i  missinisi assai scuntenti … Tanti figghi ‘i  matri si nni vannu / pinsannu di putiri migghiurari / ccà ‘un c’è cchiù nenti ‘i spirari / sulu l’occhi pi’ cianciri nni ristannu / Veni  Bammineddhu ‘i luci chinu/ scinni ‘nmenzu a nui e danni spiranza / fa’ nasciri ‘a  Città cu la crianza.

Amici  buddhacioti, bon  Natali !

Messina, Natale 2016

[*] Il Poeta cui si fa menzione è Gianni Mangano (da Raccolta di versi dialettali, Messina 2010 – 2016)

Fonte delle notizie e delle foto è stato il pregevole volume di Salvatore Agati  Carlo V e la Sicilia (Giuseppe Maimone Editore, Catania 2009), che riporta una vasta bibliografia.