In margine al «Padre nostro» di Dante (Purg. XI, 1-24)

Il canto undicesimo del Purgatorio si apre con la celebre parafrasi del «Pater Noster», su cui – data l’universale risonanza della preghiera – non sorprende che si sia stratificata, nel tempo, una ricca letteratura critica e filologica: basti ricordare che già il cattolico romantico Tommaseo deprecò le «aggiunzioni esplicative» del poeta, che avrebbe fatto perdere al testo in oggetto la originaria «semplicità evangelica»;i alla stessa stregua, nella temperie positivistica, se ne sottolineò, con D’Ovidio in ispecie,ii la componente «dottrinale», che farebbe rimpiangere il «sublime candore» del vangelo; in ambito crociano, poi, questa tesi fu accolta anche da Attilio Momigliano, il quale tenne, tuttavia, a evidenziare, et pour cause, «il tono di questo Pater noster: piano, umile, con un senso di stanchezza e di pochezza terrena», rilevando come la parafrasi stessa, «confrontata con l’originale, sembra una parafrasi infusa della delusione della terra, che è fra i sentimenti caratteristici del Purgatorio»iii; i commenti successivi non si discostarono molto, nel corso del Novecento, dalla impostazione comparativa della parafrasi, inaugurata da Tommaseo.iv

Un passo avanti si è fatto, invero, all’inizio del terzo millennio, con l’interpretazione che del suddetto passo del Purgatorio hanno dato Umberto Bosco e Giovanni Reggio, nella loro edizione commentata del poema dantesco.v


 

Qualcuno dei lettori più recenti ha giustificato l’una o l’altra delle aggiunte, ma in genere rifiutando quelle dottrinali o sforzandole a valori sentimentali; comunque, si è sempre accettato il paragone tra il testo dantesco e l’evangelico.

Ora, è proprio questo paragone che va risolutamente respinto: Dante non pensò minimamente ad entrare in gara col vangelo […] e quindi a noi non compete sentenziare sull’esito di una gara inesistente. Dante voleva invece attuare un esperimento d’arte […]: volle dare un saggio di quella specie di genere letterario tra il dottrinale e il retorico allora di moda (Parodi), consistente appunto nella parafrasi e farcitura dei testi sacri […].


 

L’indagine si è quindi focalizzata, in questi ultimi tempi, sulle tecniche medievali della parafrasi evangelica e sui nessi intertestuali che legano, in particolare, la parafrasi del «Padre nostro» alla retorica e alla religiosità del Medioevo, con risultati di notevole rilevanza ermeneutica.vi Va emergendo, difatti, aldilà della maggiore o minore (alla fine, irrilevante) valenza poetica della versione dantesca, la vasta rete delle interazioni culturali ad essa sottese, che meglio ne esplicitano il senso e le movenze.

Hic Rhodus, hic salta: la preghiera con cui Dante volle aprire il canto dei superbi è da considerarsi, a tutti gli effetti, una parafrasi dei corrispettivi versetti del testo evangelico (latino ovviamente) di Matteo, VI, 9-13 (e di Luca, XI, 2-4), con amplificazioni e/o aggiunte teologico-dottrinarie, mirate ad attualizzare il testo di partenza, eliminando possibili fraintendimenti da parte dei fedeli. Ed è in questa ottica parenetica ed ermeneutica, tipicamente medievale, nonché conforme alla potente molla pedagogico-missionaria che spinse Dante alla composizione della Commedia, che bisogna leggere il Padre nostro del Purgatorio.

Ma, a ben considerare, c’è, in questo quadro ben definito, un solo punto poco chiaro, che vuole essere illuminato.

Nessuno, difatti, può dubitare del fatto che il «Padre nostro» di Dante sia la parafrasi del Pater noster latino di Matteo, stando alle prime sei terzine del Canto XI, in ognuna delle quali appare – quasi esplicito señal – almeno uno dei termini del corrispondente versetto latino, tradotto, alla lettera, in volgare:


 

Purg. XI, 1: «O Padre nostro, che ne’ cieli stai» da Pater noster qui es in caelis (Matth. VI, 9)

Purg. XI, 4: «laudato sia il tuo nome» da sanctificetur nomen tuum (Matth. VI, 9-10)

Purg. XI, 7: «Vegna ver noi la pace del tuo regno» da adveniat regnum tuum (Matth. VI, 10)

Purg. XI, 10-12: «Come del suo voler li angeli tui / […] così facciano gli uomini de’ suoi» / da fiat voluntas tua sicut in caelo et terra (Matth. VI, 11)

Purg. XI, 13: «Dà oggi a noi la cotidiana manna da Panem nostrum quotidianum da nobis hodie (Luca XI, 3-4)

Purg. XI, 16-17: «E come noi lo mal ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascuno, e tu perdona» / da et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris ((Matth. VI, 12-13)


 

Ma la settima terzina (versi 19-21) dell’undicesimo canto del Purgatorio e, in ispecie, il primo segmento della stessa, difficilmente si potrebbe considerare la parafrasi del versetto di Matteo VI, 13: «et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo», visto che non figurano affatto, nel testo dantesco, né il sostantivo («tentationem»), né il verbo («inducas»), né tampoco il senso effettivo dell’originale latino, (laddove, il secondo segmento della terzina dantesca ne riprende almeno il verbo [«libera»]).

La terzina di Purgatorio XI, 19-21, infatti, recita: «Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro,/ ma libera da lui che sì la sprona/».

Sorprende, però, che tale diversione del poeta dalla sua normale prassi traduttoria non sia stata colta nei pregevoli studi recenti: non c’è niente, in Matteo VI, 13, che possa far pensare a «Nostra virtù che di legger s’adona» né al verbo «non spermentar» né alla coppia aggettivo- sostantivo «l’antico avversaro» né tampoco alla relativa conclusiva «da lui che sì la sprona»: una ricostruzione – parrebbe – più che una parafrasi.

Si è che il testo dantesco in oggetto appare, invece, più vicino alla versione greca del vangelo di Matteo («καί μɳ εισενέγης υμάς ἕις πειρασμόν, αλλά ρΰσαι ἠμάς από του πονηρου»), dove il sostantivo πειρασμόν (prova, cimento, lotta) e il verbo da cui deriva πειράζω («mettere alla prova»), molto presenti nel vecchio e nel nuovo testamento,vii rientrano nel campo semantico di «sperimentare» (lo «spermentar» di Dante) e ό πονηρός, il maligno, ha più di una parentela con «l’antico avversaro».viii

Ma Dante – lo sappiamo tutti – non conosceva il greco e la conoscenza dei testi dei filosofi greci e dei poemi omerici, che cita, gli veniva dalle traduzioni latineix. Il che, a maggior ragione, vale per la Bibbia, la cui versione in latino era di uso comune, all’epoca, nella chiesa e non solo.

Ora, nulla esclude che Dante, nella sua genialità somma, possa aver concepito la proposizione «Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro»/, come parafrasi di «et ne nos inducas in tentationem», ma è molto più probabile – considerati i normali meccanismi cognitivi – che la locuzione «nostra virtù […] non spermentar con l’antico avversaro» o fosse di uso comune (anche con possibili varianti), al tempo di Dante, almeno in strette cerchie di intellettuali (da ricercare), o che, quantomeno, a Dante sia stata suggerita da qualcuno dei suoi sodali (da individuare), esperto della versione greca del vangelo di Matteo.x

A questo punto, però, data la ristrettezza o meglio la «chiusura» dei tempi (e delle biblioteche) in cui viviamo da un anno, si ferma questa cursoria indagine, che certamente ulteriori, più approfondite indagini richiederebbe.

Ci si consenta tuttavia di evidenziare come Dante, nei primi decenni del Trecento, settecento anni fa, avesse avuto, evidentemente, contezza della pericolosità (per i fedeli) di una parafrasi “normale” di Matteo VI, 13 («et ne nos inducas in tentationem») e, soprattutto, di una sua traduzione letterale: quella che – ci si consenta l’attualizzazione – la chiesa ne avrebbe invece dato («e non indurci in tentazione»), nonostante l’esplicita avvertenza di Giacomo negli Atti degli apostoli: «Nessuno quando è tentato dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1, 13). Quanto dire che Dante ha seguito il monito di Giacomo (che molto probabilmente conosceva) più fedelmente della stessa chiesa.

Ed è pressoché inutile rilevare come, la chiesa cattolica abbia optato, solo qualche mese fa, per una traduzione del versetto di Matteo VI, 13 più vicina all’originale greco e, in verità, meno peregrina della precedente (sicuramente errata): «e non ci abbandonare alla tentazione».

Vale invece la pena di ricordare come Papa Francesco, nell’Udienza generale di Piazza San Pietro di mercoledì, 1 maggio 2019, abbia corretto, con esemplare chiarezza, secoli di incomprensione:


 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo nella catechesi sul “Padre nostro”, arrivando ormai alla penultima invocazione: «Non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13). Un’altra versione dice: “Non lasciare che cadiamo in tentazione”. Il “Padre nostro” incomincia in maniera serena: ci fa desiderare che il grande progetto di Dio si possa compiere in mezzo a noi. Poi getta uno sguardo sulla vita, e ci fa domandare ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno: il “pane quotidiano”. Poi la preghiera si rivolge alle nostre relazioni interpersonali, spesso inquinate dall’egoismo: chiediamo il perdono e ci impegniamo a darlo. Ma è con questa penultima invocazione che il nostro dialogo con il Padre celeste entra, per così dire, nel vivo del dramma, cioè sul terreno del confronto tra la nostra libertà e le insidie del maligno.

Come è noto, l’espressione originale greca contenuta nei Vangeli è difficile da rendere in maniera esatta, e tutte le traduzioni moderne sono un po’ zoppicanti. Su un elemento però possiamo convergere in maniera unanime: comunque si comprenda il testo, dobbiamo escludere che sia Dio il protagonista delle tentazioni che incombono sul cammino dell’uomo. Come se Dio stesse in agguato per tendere insidie e tranelli ai suoi figli. Un’interpretazione di questo genere contrasta anzitutto con il testo stesso, ed è lontana dall’immagine di Dio che Gesù ci ha rivelato. Non dimentichiamo: il “Padre nostro” incomincia con “Padre”. E un padre non fa dei tranelli ai figli. I cristiani non hanno a che fare con un Dio invidioso, in competizione con l’uomo, o che si diverte a metterlo alla prova. Queste sono le immagini di tante divinità pagane. Leggiamo nella Lettera di Giacomo apostolo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (1,13). Semmai il contrario: il Padre non è l’autore del male, a nessun figlio che chiede un pesce dà una serpe (cfr.Lc11,11) – come Gesù insegna – e quando il male si affaccia nella vita dell’uomo, combatte al suo fianco, perché possa esserne liberato. Un Dio che sempre combatte per noi, non contro di noi. È il Padre! È in questo senso che noi preghiamo il “Padre nostro”.


 

Andrebbe, tuttavia, riconosciuto a Dante il merito di avere dato, per primo, una traduzione, non letterale, in lingua moderna della più famosa preghiera dei cristiani,xi prefigurandone una retta fruizione e anticipando, anche per questa via, Martin Lutero, il quale, nella sua Epistola sulla traduzione del 1530, contestò l’inviolabilità del testo latino della Bibbia, propugnata dai “dottori del papato”.xii
 

Questo articolo è stato pubblicato in “Nuovi itinerari danteschi”, a cura di A. Manitta, Il Convivio Editore, Catania 2021.

 

Note:

 

i Niccolò TOMMASEO, Commento alla “Commedia”, voll. 3, a cura di Valerio Marcucci, «Edizione Nazionale dei Commenti Danteschi», II, Salerno Editrice, Roma 2004.

 

ii Francesco D’OVIDIO, Nuovi studi danteschi. Il Purgatorio e il suo preludio, Milano 1906, 63-66.

 

iii Dante ALIGHIERI; La Divina Commedia, Purgatorio, con i commenti di Tommaso Casini / Silvio Adrasto Barbi, Attilio Momigliano, a cura di Francesco Mazzoni, Sansoni, Firenze 1973, p.238.

 

iv Cfr. Ernesto Giacomo PARODI, Note per un commento alla Divina Commedia, in ID, Lingua e Letteratura, Venezia 1957, II, 372-373; Giovanni FALLANI, Poesia e teologia nella Divina Commedia, Marzorati, Milano 1961, 22-23; Fulberto VIVALDI, Pater Noster (Purg. XI, 1-24) «L’Alighieri» VII (1967), I, 73-80 (rist. in Qualche segreto della Divina Commedia, Olschki, Firenze 1968.

 

v ALIGHIERI, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2005, 287-288.

 

vi Si segnalano, in ispecie: Nicolò MALDINA. L’oratio super Pater Noster di Dante tra esegesi e vocazione liturgica. Per Purgatorio XI, 1-24, «L’Alighieri», XL, 2 (2012), per l’acuta ricognizione delle tecniche della amplificatio omiletica medievale e della coeva predicazione mendicante; Sergio CRISTALDI, Il «Padre nostro» dei superbi, Atti del V Convegno Internazionale di Studi danteschi, Preghiera e liturgia nella Commedia (Ravenna, 12 luglio 2011), Ravenna, Longo, 2013.

 

vii Cfr. Giovanni GIOLO, Analisi del Padre Nostro, in “Sebecio”, Napoli 2015, pp. 11-13.

 

viii Lo stesso MALDINA, L’oratio super Pater Noster, cit., si limita a constatare che «la formulazione della parafrasi del versetto conclusivo – […] “Et ne inducas in temptationem, sed libera nos a malo” – trova la propria definizione grazie a un’importante aggiunta che amplifica, attribuendogli un senso assieme più preciso e profondamente differente, il generico “nos” biblico – “Nostra virtù che di legger s’adona” – e all’altrettanto importante specificazione dell’interpretazione in chiave demoniaca dell’ “a malo” che porta con sé non solo la zeppa conclusiva “che sì la sprona”, ma anche la traduzione della tentazione biblica con l’espressione, ben altrimenti circostanziata,”l’antico avversaro”». Più significativa è la successiva notazione dello studioso: «Un distinguo, quest’ultimo, particolarmente emblematico dell’effettiva ratioche soggiace alla parafrasi dantesca, almeno in alcune sue sezioni, dal momento che Dante, specificando il neutro male biblico in un’accezione più propriamente diabolica, prende risolutamente partito con una linea esegetica, per altro preponderante nel Medioevo, incline a scorgere nell’explicit dell’oratio dominicaproprio la drammatizzazione delle lusinghe del diavolo: “Vel malum hic Diabolum vocat, propter excellentiam malitiae, non quae ex natura est, sed quae ex electione. Et quia ad nos implacabile bellum habet, propter hoc dixit libera nos a malo”, annota infatti Tommaso d’Aquino a margine dell’«a malo» biblico».

 

ix Cfr. Vito SIRAGO, Dante e gli autori latini, «Lettere Italiane» 1950, il quale, offre una schedatura esaustiva degli studi critici chein quest’ultimo secolo hanno documentato come Dante conoscesse «non molti autori latini e non sapesse il greco».

 

x Si potrebbe partire dalle scuole di religiosi operanti a Firenze, nel tempo di Dante: soprattutto quella dei francescani di Santa Croce e lo Studium solemne dei domenicani a Santa Maria Novella. Ma bisognerebbe allargare l’indagine ai contatti culturali del poeta extra moenia, dacché la composizione della Commedia è sicuramente posteriore all’esilio.

 

xi La prima traduzione della Bibbia dalla Vulgata in italiano, a cura del monaco camaldolese NicolòMalermi, fu pubblicata nel 1471.

 

xii Cfr.S- NERGAARD, La teoria della traduzione nella storia, Milano, Bompiani,1993, 102.