Dante Cristiano ieri e oggi

La Divina Commedia, epica narrazione in versi dell’ascesa dell’Uomo redento al Paradiso, dopo un arduo viaggio nei tre regni oltremondani, è l’opera più grandiosa – sublime, quant’altre mai, sul piano estetico – che sia stata concepita e realizzata da mente umana. Perciò, il suo autore; Dante Alighieri, è non solo il più grande dei poeti di tutti i tempi, ma anche il sommo poeta cristiano.

I papi del secolo scorso e quelli di questi primi decenni del Terzo Millennio ne hanno giustamente ratificato l’esemplare conformità ai principi e ai testi della religione cristiana.

Già Benedetto XV, il 30 aprile 1921, dedicò al Sommo Poeta un enciclica (In praeclara summorum), in cui esortava i fedeli a riconoscere che un «poderoso slancio d’ispirazione egli [Dante] trasse dalla fede divina». L’argomento fu ripreso, il 7 dicembre 1965, da Paolo VI che, nella lettera apostolica Altissimi cantus, scritta in occasione della celebrazione dei 700 anni dalla nascita del grande Fiorentino, esclamava radioso: «Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica». Lo stesso Joseph Ratzinger, prima di divenire Benedetto XVI, nella sua opera più famosa, Introduzione al cristianesimo, aveva utilizzato un passo dell’ultimo canto del poema dantesco per evidenziare il cardine fondamentale della teologia, cioè la perfetta somiglianza, quasi identitaria, dell’uomo liberato dal peccato con Dio: «Dentro da sé del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige, / per che ’l mio viso in lei tutto era messo» (Paradiso XXXIII, 130-132). 

Appropriazione necessaria, invero, e incontrovertibile. 

Ma Dante Alighieri è anche – non si dimentichi – il cristiano dalla mente libera, non incline ad alcun compromesso, avverso a ogni pretesa di egemonia politica e a qualsiasi forma di indebito arricchimento del papato, assertore radicale, in un contesto agitato da crisi profonde, della perennità del messaggio evangelico nella sua purezza originaria e custode risoluto della via maestra di carità e povertà tracciata dal Redentore.

 

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Si consideri che dei quattordici papi che si sono succeduti nel corso della sua vita solo due, Giovanni XXI  (1276-1277) Giovanni XXII (1316-1334), sono citati nel Paradiso (rispettivamente nel canto XII, 134-135 e nei canti XVIII, 130-136; XXVII, 58-60); laddove tre, Clemente IV, Adriano V e Martino IV sono citati nel Purgatorio(rispettivamente nel canto III, 124-126, nel canto XIX, e nel canto XXIV, 20-24); quattro sono completamente ignorati (Beato Gregorio X,1271-1276; Beato Innocenzo V, 1276; Onorio IV, 1285-1287; Papa Niccolò IV, 1288-1292); uno è appena nominato in Epistole, XI, 25; e ben quattro sono gettati da Dante nell’Infernoe, in particolare tre (Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V) fra i simoniaci, nel canto XIX, e uno, Celestino V (1294), tra gli ignavi, nel canto III.

L’escamotage di cui Dante si avvale, nel canto XIX dell’Inferno, per condannare – è la parola giusta – il comportamento deviante di due tre papi suddetti a una delle pene più avvilenti dell’Inferno, è perfettamente emblematico della personalità giustamente risentita del poeta cristiano e della gravità oggettiva della colpa di cui i papi stessi si sono macchiati.

Il sommo poeta è, di fatto, estremamente impietoso – ai limiti del sadismo – nei confronti dei tre pontefici che sono incorsi nel peccato di simonia: impietoso come non mai. 

Dopo l’invettiva iniziale contro i seguaci di «Simon mago», che avolverano «per oro e argento» «le cose di Dio, che di bontade / deon essere spose», e la descrizione della terza bolgia dell’ottavo cerchio, «piena […] di fori, / d’un largo tutti e ciascun era tondo», in cui i dannati sono inseriti, a testa in giù, «infino al grosso», con la fiamma guizzante sulle «piante» dei piedi, il poeta viene attratto dalla visione di uno «che si cruccia / guizzando più che li altri suoi consorti» e, col permesso di Virgilio, gli si rivolge.

 

Inonotus tamaricis superficie sterile
Papa Bonifacio VIII
Inonotus tamaricis superficie fertile

 

Celestino V

Il papa simoniaco scambia dapprima Dante per «Bonifazio» (che nel marzo del 1300 era vivo e vegeto) e, al diniego di Dante, dice che attende la venuta del suo successore, Bonifacio VIII, il quale, secondo la regola ivi vigente, lo farà sprofondare in basso. Con questo stratagemma Dante può collocare all’Inferno anche i due papi non ancora morti e, in particolare, appunto, Bonifacio VIII, che egli considerava causa prima della corruzione politica dilagante e della crisi morale del papato.

La risposta del dannato (che si presenta come «figliuol dell’orsa», cioè papa Niccolò III, Giovanni Gaetano Orsini, pontefice tra il 1277 e il 1280, riconoscendo di essere stato «cupido sì per avanzar li orsatti / che su l’avere e qui me misi in borsa») e il dialogo che segue tra lui e il poeta è un vero capolavoro di regia di Dante narratore-autore nonché, come dicevamo, segno mirabile dell’atteggiamento giudicante, severo, irriducibile di Dante-personaggio.

Niccolò III continua profetizzando che Bonifacio «non starà piantato coi piè rossi» quanto c’è stato lui, perché dopo di lui salirà sul trono pontifico un papa anche peggiore («di più laida opra»), «un pastor senza legge» cioè il francese Clemente V, prezzolato da Filippo il Bello, re di Francia, che li spingerà ambedue più in basso.

Clemente V

A questo punto, si scatena l’attacco di Dante, amaramente innervato da sdegno incontenibile, duro sarcasmo e atroce dolore, contro il papa simoniaco. E va sottolineato che il sommo poeta contesta Niccolò III (e, a un di presso, Bonifacio VIII e Clemente V) non già da uomo politico, ma da cristiano che contrappone efficacemente il messaggio di Cristo e i comportamenti degli apostoli all’immoralità, e all’avidità dei tre pontefici:

 

Dimmi dunque, quanti soldi chiese Nostro Signore a San Pietro prima che gli desse le chiavi? Solo un ‘Vienimi dietro’; a loro volta né Pietro né gli altri apostoli chiesero alcun oro o argento a Mattia apostolo, quando gli offrirono il posto dell’anima malvagia (di Giuda Iscariota); Perciò ti sta bene che tu venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati, che ti misero contro Carlo dAngiò (90-99).

 

Dante, insomma, non deflette punto dal vangelo, anzi esprime a chiare lettere il suo rispetto per il primato petrino: «Se parlo così è per reverenza delle somme chiavi di pontefice che tenesti in vita, perché dovrei usare parole più pesanti: la vostra avarizia (qui nel senso di avidità) rattrista il mondo, calpesta i buoni ed innalza i malvagi» (100-104).

 

Va pure considerato che il poeta suggella l’invettiva ricorrendo, da cristiano, a uno dei testi sacri del cristianesimo: l’Apocalisse di Giovanni: «Proprio di voi parlava profetizzando l’evangelista Giovanni quando nell’Apocalisse citava colei che siede sopra le acque ‘puttaneggiando con i re’ (vv. 90-108)».

Egli stesso rinfaccia, quindi, senza mezzi termini, ai papi simoniaci di adorare un «dio d’oro e d’argento», anzi tanti dèi quante sono le monete che accumulano.

 

Niccolò III

Infine l’orazione si conclude con una puntuta invettiva contro Costantino I e la sua famosa «donazione»: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!» (115-117).

Dante è, dunque, un cristiano «adulto» (per dirla con un famoso uomo politico dei nostri tempi), cioè immune dal tarlo del clericalismo, capace di protestare contro certe deviazioni – e/o ingerenze in territori non suoi – della Chiesa e dei suoi più alti rappresentanti: alla fine, un cristiano che protesta, un protestante ante litteram. Senza mai dubitare – occorre ribadirlo – del magistero petrino, suggellato nei vangeli.

In effetti, nelle sue prese di posizione contro la simonia e/o l’avarizia di certi papi, tuttavia estranee alle logiche separatistiche delle sette ereticali del suo tempo, Dante Alighieri si mosse, per primo, sulla via che sarà percorsa, con altri esiti e modalità, due secoli dopo, da Martin Lutero