PER NINO FERRAÙ

(nel 97° anniversario della nascita, 12 ottobre 1923)

Quella del messinese (di Galati Mamertino) Nino Ferraù è, senza meno, una delle voci poetiche più autentiche del secondo Novecento, ma la sterminata produzione dello stesso, nonostante abbia goduto del consenso di grandi critici (Benedetto Croce, Francesco Flora e Giacinto Spagnoletti in primis, per non dire dei conterranei Giuseppe Amoroso, Luciano Armeli Iapichino, Antonio Baglio, Anna Maria Crisafulli Sartori, Cosimo Cucinotta, Lucrezia Lorenzini e Maria Pina Natale), rischia di non oltrepassare i confini regionali, per la difficoltà oggettiva del lettore di poterla conoscere nella sua interezza (data anche la difficile reperibilità dei testi) – la ristampa delle poesie edite e la pubblicazione delle inedite in due distinti volumi compresi in un cofanetto da un editore lungimirante, di levatura nazionale, andrebbe sicuramente nel giusto senso – e per il pregiudizio, operativo anche in ambienti colti della città dello Stretto, di una improbabile dimensione familiare, sentimentale, regionalistica e, alla fine, premoderna del suo respiro.

Questo pregiudizio è alimentato dalla assenza totale del poeta nelle storie letterarie, nelle antologie scolastiche e nei vari repertori anche enciclopedici (cui potrebbe, forse, sopperire, grazie alla conquistata autonomia, un’illuminata programmazione nelle scuole secondarie della città di Messina e della provincia quantomeno), nonché probabilmente da una ricezione distorta del suo “Ascendentismo”, di cui magari si privilegia una impropria chiave di lettura misoneista e antimoderna, senza considerarne la fondamentale valenza positiva, propositiva, ideale.

Della disattenzione dei centri culturali e politici della città alla meritoria attività letteraria del poeta è anche indiziario il fatto che la prima e unica tesi di laurea su un’opera di Ferraù sia stata discussa, a Messina, nel 1989, cinque anni dopo la sua morte, in una indimenticata seduta di laurea, dalla sensibile, seria studentessa Eugenia Saccà, proprio con me, ch’ero, all’epoca, professore in quella gloriosa Facoltà di Magistero.

Non c’è dubbio tuttavia che, per apprezzare la poesia di Ferraù come merita e com’è giusto, occorra liberarsi da molti pregiudizi e da ogni provincialismo, confrontandosi direttamente con i testi e assaporandone il fascino inconfondibile, la musicalità avvolgente, la illuminante chiarezza, le tematiche profonde e sempre attuali.

È però opportuno, in via preliminare, sottolineare che l’opera del Galatese è maturata in seno alla reazione antiermetica nell’Italia postbellica: Ferraù aveva ventitré anni quando, nel 1946, Salvatore Quasimodo, nel saggio “Poesia contemporanea”, prese nettamente la distanza dall’Ermetismo, sancendone di fatto l’esaurimento e proponendo, in alternativa, una nuova poesia, capace di «rifare l’uomo», dopo i disastri del fascismo: «Rifare l’uomo: questo il problema capitale» scriveva. E, qualche anno dopo, nel “Discorso sulla poesia”, scritto nel 1953, il poeta di Roccalumera aveva ribadito: «[La poesia] della nuova generazione è sociale» ed «aspira al dialogo più che al monologo». La chiusa del saggio suona, invero, come un de profundis sull’Ermetismo defunto:

La poesia italiana, dopo il ’45, è di natura corale […]; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni; talvolta presume all’epica.

 

Furono, invero, quelli di Ferraù, gli anni fervidi dell’intrepida ricostruzione di un paese già massacrato dalla guerra, della democrazia repubblicana “allo stato nascente”, dell’europeismo preconizzato come unico baluardo contro ogni possibile rinascita degli orridi nazionalismi. Ma furono anche gli anni in cui lo strepitoso – e incontrollato – sviluppo industriale, nel modificare arcaici e insostenibili modi di vita, di fatto livellava i costumi secondo modelli americani, estirpando, però, del pari, le radici culturali e i valori autentici di intere popolazioni. 

Contro la pervasiva involuzione tecnologica e nichilistica dell’epoca levò, invero, la sua debole voce il galatese (non diversamente dal coetaneo Pasolini), inalberando i radicati valori della cultura contadina (alla stessa stregua di un Bertolucci) e della religione (come Luzi) nonché, negli scritti occasionali, la sua vocazione a una pace stabile e fruttuosa in un’Europa democratica davvero unita (come Calvino, Sciascia, Consolo e tanti altri esponenti coevi della cultura democratica, liberale e socialista).

E però, non sorprende che una filiazione quasi diretta del suddetto saggio del 1946 di Quasimodo si riveli il “Codice dell’Ascendentismo” pubblicato da Ferraù nel 1954, un testo, davvero esemplare, di poetica antiermetica e antidecadente.

Certo, il poeta fece dell’antiermetismo quasimodiano, e della connessa lotta alle avanguardie, la sua bandiera. Tanto che, nel saggio “Uomo del mio tempo” del 1957, affermava senza mezzi termini:

La poesia, svuotata di tutto ciò che esaltava o educava o consolava o liberava la vita attraverso il prodigio della bellezza e del canto, si è perduta nel vaniloquio a nome dell’ermetismo; […] si è arrivati persino a quella glorificazione del non-senso che è il limbo d’impenetrabilità per contrabbandare le droghe dei pensieri senza pensiero e dei sentimenti senza sentimento. 

 

E però la poetica antiermetica è chiaramente sottesa non solo alle raccolte di poesie pubblicate in vita dal poeta stesso (“Maestro di montagna”, “Schegge d’anima” e “Onomatopeiche”, negli anni Cinquanta, “Poemetti” e “Interludi alla raccolta poetica”, negli anni Sessanta), ma anche quelle pubblicate dopo la sua morte, grazie all’amorevole interessamento dell’ing. Giuseppe Ferraù, suo fratello: “Orme di viandante” (1985), “Immagine azzurra” (1987), “Grumi di terra” (1988), “Album” (1993), “Pietre di fiume” (1998), “E sentirci così” (1999), “Mosaico di luci” (2010). 

In tutte, all’interno di una sorta di sincronia ideale, circola – spesso illuminata dai bagliori del sublime – la poesia di Nino Ferraù, ora profondamente religiosa, etica, solidaristica, ora amorosa, ora indagativa (sul mistero della vita e dell’arte). Il miracolo – «La poesia è un miracolo» (Ingarden) – si compie, attraverso il sapiente, libero intaglio di versi liberi, peraltro vivificati da metafore luminose, grazie anche alla felice opzione di un lessico antiretorico, discorsivo, familiare, e sull’onda dei ritmi armonici, mai stridenti, di un poeta che diresti dotato di un’innata disposizione al canto.

Basti recuperare, in questa sede, un gioiellino, “Molte volte”, pubblicato da Giuseppe Ferraù, fratello del poeta, in una smilza plaquette:

Molte volte mi sembra / di prendere per mano me stesso,/ questa mia anima bambina / e condurla / per assolati sentieri dell’infanzia, / che sembravano perduti per sempre / e che invece ritornano / nel miracolo improvviso / d’una riscoperta./ E riscopro anche, o madre,/ la tua presenza continua / e accarezzo le erbe e le pietre, /le porte e le mura / con lunghi interrogatori / e giro intorno a tutte quelle cose / dove è rimasto / ancora il profumo delle tue mani …

 

Per questo e per tanti altri motivi, Nino Ferraù meriterebbe un posto ragguardevole tra i «Maestri» del secondo Novecento (Pasolini, Sereni, Luzi, Caproni, Bertolucci), che della leggibilità antiermetica e della difesa di valori non transeunti contro la cultura omologante e distruttiva del neocapitalismo degli anni Sessanta fecero il perno del loro poetare.