Ripensando a Maria Costa

Alcuni amici, nell’osservare, su Facebook, la mia pagina di copertina in cui figuro sorridente accanto a Maria Costa, mi chiedono di parlare ancora della grande poetessa dello Stretto, da poco scomparsa.

Epperò, dirò subito che Maria Costa era certamente messinese, ma, in ispecie, cittadina della Riviera Nord di Messina (che non è un mondo a sé né un paradiso terrestre, ma una realtà socio-culturale ben definita): veniva dalle barche, non – con rispetto parlando – dai salotti; conosceva bene, lo «sciroccu», il «ventu cavaleri», il «maistrali», la «lupatina, la «tramuntana, il «livanti», la «scinnenti», la «muntanti»,  la «pignatedda» che «bugghiva patati», la «brogna»,  le «bracere», i «fumenti»,  le vecchie «chi filavanu la lana», i «rinninuni», il «piscispadu», il «luvarottu», la «ciciredda», la «ncioarina», i «peddisquatra», i «cavuliceddi», l’«aspareddu  ntô bucali», il «friddu chi vi tagghiava a facci», i «maistri di nassa»; mostrava, con quel suo busto eretto, la fierezza delle donne dei marinai; parlava la lingua diretta, senza sdolcinature, senza eufemismi e senza ipocrisie moralistiche, della gente di mare; aveva il dono dell’ironia leggera e sorridente che rende meno amara la vita alla gente di mare; gettava ponti, come la gente di mare, e non costruiva muri tra sé e gli altri; guardava avanti, come la gente di mare, anche quando rievocava volti, fatti, eventi del passato.

Maria Costa ebbe, insomma, il dono di trasformare in poesia il mondo dei pescatori dello Stretto e in particolare dei pescatori del villaggio Paradiso della Riviera Nord di Messina (la «Riviera del Faro», celebrata da Boner nei Racconti peloritani). Questo mondo ella conobbe, frequentò, praticò e assorbì fino a farne fibra delle sue fibre corporee, nel corso dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, vissute nella casa bassa, sul mare di Paradiso, accanto al padre, alla madre, ai fratelli amatissimi, negli anni che precedettero e seguirono la seconda guerra mondiale: il mondo di Maria Costa è, in altri termini, quello messinese, marinaresco, umile, popolare, povero (giammai misero), preborghese della prima metà del Novecento, che collide infine con quello ultramoderno della contemporaneità omologata e smarrita, nonostante l’abbondanza dei beni materiali.

E mi si lasci, infine, dire che sono fiero di essere l’unico critico italiano e l’unico professore universitario messinese ad avere scritto e pubblicato un saggio sulla sua intera produzione dialettale: la poetessa delle «case basse» di Paradiso ha molto gradito e apprezzato quel saggio che ho poi inserito in un mio volume, Vero e immaginario tra Sicilia e Calabria, oggi ospitato nella famosa Library of Congress di Washinghton e nella prestigiosa Bibliothéque Nationale di Parigi.