Come l’uomo ha fatto della Terra un mondo artificiale

Una notizia apparsa sull’autorevole rivista inglese Nature alla fine del 2020, poi ripresa in tutto il mondo da giornali e testi specializzati, è di quelle che lasciano increduli. Ecco di che si tratta. 

Secondo uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze Ambientali e Forestali dell’istituto israeliano Weizmann, centro di ricerca fra i più prestigiosi al mondo, la specie umana avrebbe messo a segno quell’anno un record non comune: il peso dei manufatti disseminati sulla superficie terrestre nel tempo (fabbricati, strade, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.) avrebbe per la prima volta superato quello di tutti gli esseri viventi in atto presenti sul pianeta (piante, funghi, alghe, batteri, animali, uomo compreso), sia pure al netto dell’acqua contenuta nei loro tessuti. La cifra finale, calcolata, a quanto pare, con rigorosi metodi scientifici e con ridotti margini di errori, è perfino difficile da immaginare: 1.100 miliardi di tonnellate (in gergo accademico 1,1 teratonnellate), al netto dei prodotti umani di scarto (oggetti dismessi, plastica, spazzatura, materiali edili di risulta, ecc.). Per i dettagli si rimanda, ovviamente, alle tante opere divulgative pubblicate anche in Italia, come il recentissimo lavoro di Telmo Pievani, docente di filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, evoluzionista e saggista di fama internazionale (La Natura è più grande di noi, Grafica Veneta, 2022), dal quale ho tratto alcuni dati.

Impressiona, intanto, la progressione temporale del fenomeno in argomento, considerato che all’inizio del ‘900 il peso dei prodotti artificiali avrebbe rappresentato appena il 3% della biomassa complessiva e che, al ritmo attuale, esso sarebbe destinato a triplicare nei prossimi 20 anni. La biomassa nel frattempo sarebbe rimasta pressoché costante, ancorché profondamente alterata nella sua composizione specifica, nel senso che le piante coltivate e gli animali d’allevamento avrebbero sostituito gran parte della flora e della fauna selvatiche. Una fortissima accelerazione avrebbe conosciuto l’incremento della massa antropogenica alla fine della seconda guerra mondiale, prima con l’impiego massiccio della pietra e del mattone, poi del calcestruzzo, del ferro, del vetro e, infine, dell’asfalto. 

Grandi sorprese riserva la scomposizione ponderale della biomassa, rappresentata per il 90% dai vegetali, seguiti, nell’ordine, dai batteri, dai funghi, dagli archeobatteri (microrganismi di ambienti inospitali per basse o alte temperature), dai protisti (organismi unicellulari di natura vegetale) e, buon ultimi, dagli animali. Noi umani contribuiamo al peso globale degli organismi viventi solo per lo 0,01%, ancor meno, dunque, di uno dei tanti gruppi di esseri microscopici. Circoscrivendo poi il calcolo ai soli mammiferi, si scopre che il genere umano (costituito in atto, com’è noto, da oltre 8 miliardi di individui) vale il 36% del loro peso complessivo, contro il 60% degli animali domestici e il 4% della fauna selvatica. 

Qualche esempio pratico? La Torre Eiffel peserebbe quanto l’insieme dei rinoceronti bianchi africani sopravvissuti alla caccia spietata subita negli anni passati; tutti i pesci d’acqua dolce e salata del mondo equivarrebbero in peso alla sola città di New York.

Rientrando in Italia, il nostro “orticello”, le stesse tendenze si evincono, sia pure in scala ridotta, leggendo l’ultimo Rapporto dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), nel quale sono riportate in dettaglio le trasformazioni territoriali avvenute tra il 2020 e il 2021 ad ogni livello geografico (nazionale, regionale, provinciale, comunale). Anche in questo caso, il resoconto è sintetizzabile in pochi numeri: 2,1 metri quadrati al secondo, 18 ettari circa al giorno, oltre 66 chilometri quadrati l’anno. Tanto sarebbe stato, nel periodo considerato, il consumo di suolo nel nostro Paese, ciò che avrebbe comportato la scomparsa irreversibile di altrettante aree naturali e agricole per lasciare il posto, all’interno e ai margini delle aree urbane esistenti, a nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, impianti sportivi e simili. 

A titolo orientativo cito alcuni dati, scelti tra le diverse centinaia figuranti nel rapporto.

A livello regionale, il consumo di suolo ha conosciuto il più alto incremento percentuale in Lombardia (12,12%), Veneto (11,90%), Campania (10,49%). La Sicilia, con il 6,52%, viaggia a metà classifica, appena sotto la media nazionale pari al 7,13%.

Tra le Province, in cima alla classifica si collocano Brescia (+307 ettari occupati), Roma (+216), Napoli (+204).

Roma, a sua volta, si piazza, tra i Comuni, al primo posto (95 ettari di suolo perduto), seguita da Ravenna (68) e Vicenza (42). Tra i capoluoghi siciliani spicca Catania con 34,62 ettari.

Secondo i calcoli dell’ISPRA, dal 2006 al 2021, risulterebbero “consumati” nel nostro Paese 1.153 chilometri quadrati di suolo (equivalenti, per dare un’idea, alla superficie di una provincia di medie dimensioni come Imperia o Vibo Valentia), ricadenti in prevalenza nelle aree di pianura, lungo le coste (entro un chilometro dal mare) e nelle principali aree metropolitane. Ad essi vanno aggiunti altri 310 chilometri quadrati di edifici non più utilizzati (una superficie pari all’estensione di Milano e Napoli messi insieme), rappresentati in gran parte da capannoni industriali dismessi.

I pochi numeri citati bastano, io credo, a trarre alcune conclusioni:

  1. la Terra, in base agli ospiti, non è il pianeta né degli animali né degli uomini, ma semmai delle piante, dalle quali gli uni e gli altri dipendono in toto per la loro stessa sopravvivenza (non è un caso, d’altra parte, che gli animali, rispetto ai vegetali, siano apparsi milioni di anni più tardi). L’uomo può anche andare orgoglioso per essere arrivato sulla luna e avere inventato il computer, ma deve prendere atto che non è capace, almeno per ora, di saper sintetizzare, anche in minima parte, quella preziosa sostanza organica che ci tiene in vita, cosa che riesce benissimo invece alla più umile pianticella munita di clorofilla. Egli, tuttavia, è stato in grado di modificare così profondamente gli equilibri ambientali precostituiti da caratterizzare l’epoca geologica in cui viviamo, battezzata appunto antropocene;
  2. Già da anni, geologi ed evoluzionisti sostengono che le trasformazioni operate dall’uomo, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, hanno innescato la sesta estinzione di massa (scomparsa irreversibile in breve tempo di diverse migliaia di organismi animali e vegetali), dopo le cinque precedenti, attribuite a immani catastrofi naturali, quali eruzioni vulcaniche, mutamenti climatici, modifiche sostanziali nella composizione atmosferica, violenti impatti della Terra con grandi asteroidi (chi non conosce, per tacere degli altri, gli sconvolgimenti che 66 milioni di anni fa portarono alla scomparsa dei dinosauri e di una miriade di altre specie?). Questa sesta estinzione avrebbe, però, una caratteristica assoluta: sarebbe provocata da una sola specie vivente, l’homo sapiens
    Si stima che il danno presunto di questo fenomeno sia incalcolabile non solo sul piano naturalistico e ambientale, ma anche economico. Basti pensare che ad estinguersi figurano specie non ancora classificate, le quali in futuro avrebbero potuto rivelarsi determinanti come fonte alimentare, energetica, medicinale o industriale;
  3. Dall’ultima pandemia abbiamo imparato a caro prezzo come la distruzione degli habitat porti l’uomo ad entrare in contatto con animali sempre nuovi, rendendo alta la probabilità di contrarre infezioni da contagio per effetto del così detto “salto di specie”, com’è successo in passato col morbillo, l’influenza aviaria, la peste bovina, ecc.; 
  4. Non meno nefaste sono le conseguenze imputabili al consumo di suolo. Si consideri, ad esempio, cosa comporti la crescente impermeabilizzazione dei terreni sommersi da cemento e asfalto: sottrazione di spazi per l’agricoltura, minore infiltrazione di acqua piovana negli strati profondi, impoverimento dei bacini di raccolta sotterranei, più frequenti inondazioni di coltivi e centri abitati, minore assorbimento degli inquinanti atmosferici, avanzamento della desertificazione. Il citato rapporto ISPRA giunge addirittura a quantificare il danno economico che subirebbe l’Italia per effetto del suolo sottratto alla sua destinazione naturale: 8 miliardi di euro all’anno, un quarto dell’ultima finanziaria. E dire che l’Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite ha previsto tra gli obbiettivi da perseguire entro il 2030 che le nostre città diventino più inclusive, sicure, resilienti!

Cosa fare? Logica e buon senso vorrebbero a questo punto che tutti, enti pubblici e privati cittadini, diventassimo più virtuosi nei comportamenti, se non per amore verso l’ambiente o per ragioni morali, almeno in nome dei nostri stessi interessi, materiali ed esistenziali.