Che fine ha fatto la vecchia questione meridionale?

Prendendo le mosse dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (l’ormai famoso PNRR, il progetto con cui l’Europa ha destinato all’Italia oltre 220 miliardi, di cui 82 da riservare al Mezzogiorno in qualità di area depressa), due lavori apparsi alla fine del 2021 (in verità non molto valorizzati dai mezzi d’informazione) hanno riportato in auge un argomento scomparso da anni dal dibattito politico e culturale nazionale: “la questione meridionale”. Uno di essi (un articolo apparso su quotidiani italiani intitolato Divario Nord-Sud) è del sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma; l’altro (un libro di 185 pagine intitolato Una Profezia per l’Italia, Ed. Mondadori) vede come autori i professori emeriti Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone, entrambi storici e saggisti. 

Il contributo di De Masi, in particolare, ha il pregio di esprimere in cifre il divario tra le due aree geografiche in questione e di tracciarne l’andamento temporale degli ultimi 160 anni. Egli calcola che nel 1861, subito dopo l’unificazione d’Italia, il Pil pro-capite (l’indice che per convenzione misura la ricchezza degli individui e delle nazioni) era nel Sud di 335 lire contro le 337 del Nord: una situazione, dunque, di sostanziale parità. Nel 1910 la situazione era già notevolmente mutata, risultando il Pil al Sud di lire 507 contro 612, pari cioè all’83% di quello settentrionale. Saltando al 1950, anno in cui viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno voluta da Alcide De Gasperi e Pasquale Saraceno (due settentrionali, è bene sottolinearlo) il Pil al Sud tocca il suo minimo storico, il 53% rispetto al Nord. Quando la Cassa viene soppressa (1984), i 1.280 miliardi spesi nei 34 anni di sua vigenza hanno fatto salire il Pil pro-capite del Sud di 10 punti, portandolo al 63%, per poi vederlo ridiscendere al 53% nel 2021, ultimo anno di riferimento.

Fin qui i freddi numeri, peraltro (è opportuno ricordarlo) non sempre coincidenti con quelli di altri studiosi applicatisi allo stesso tema. Senza contare che le medie, per loro stessa natura, possono derivare da valori estremi molto differenti, e nulla ci dicono sulle dinamiche interne alle popolazioni prese a campione. 

In ogni caso, come spiegare tali divaricazioni? Quali le cause che le avrebbero determinate?

In proposito, com’è verificabile con semplici incursioni su Internet, esiste una letteratura sterminata, accumulatasi a partire dalla seconda metà del XIX secolo ad opera di alcune decine di soggetti tra politici, sociologi, economisti, storici, filosofi, sindacalisti, semplici letterati, di cui mi guardo bene dal voler render conto nel dettaglio. Mi basta qui segnalare le tre prevalenti correnti di pensiero che in tale mare magnum è possibile discernere.

La prima di esse sostiene la tesi che il divario Nord-Sud fosse preesistente all’Unità d’Italia, provocato dalla diversa storia delle due macro-aree già a partire dalla caduta dell’impero romano. Il più illustre rappresentante di tale tesi è senz’altro il sardo Antonio Gramsci (1891-1937, politico, filosofo, linguista). Il quale, pur non lesinando critiche al potere sabaudo per le politiche perseguite nei riguardi del Meridione, era convinto che La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L’invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l’unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano un altro. Da una parte […] una borghesia audace e piena di iniziative, […] una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d’Europa […]. Nell’altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione, possedeva  (La questione meridionale – Il Mezzogiorno e la guerra 1, p. 5)

Dello stesso avviso è lo storico inglese Denis Mack Smith: La differenza fra Nord e Sud (nel 1860) era radicale. Un contadino della Calabria aveva ben poco in comune con un contadino piemontese, mentre Torino era infinitamente più simile a Parigi e Londra che a Napoli e Palermo […]. I poeti potevano pure scrivere del Sud come del giardino del mondo, la terra di Sibari e di Capri, ma di fatto la maggior parte dei meridionali vivevano nello squallore, perseguitati dalla siccità, dalla malaria e dai terremoti (Storia d’Italia 1861-1969, Vol. I, pp. 13-14).

Nessun riferimento esplicito si trova tra i fautori di questa tesi circa l’influenza esercitata sulle sperequazioni in argomento dalla scoperta del Nuovo Mondo, ma resto convinto che essa sia stata e continui ad essere rilevantissima, avendo spostato l’asse dei grossi flussi commerciali e relazionali dal Mediterraneo (il Mare nostrum di Greci e Romani) all’Atlantico, con indubbi riflessi socio-economici a vantaggio dei Paesi gravitanti attorno al Centro Europa.

L’esempio più spesso richiamato come emblematico del divario esistente tra “le due Italie” all’atto dell’unificazione investe la diversa dotazione esistente in strutture viarie. Si fa notare, ad esempio, che, sebbene la prima ferrovia avesse visto la luce proprio nel Meridione (tratto Napoli-Portici di 8 km, inaugurato nel 1839), già 20 anni più tardi le vie ferrate al Nord si estendevano per 2.035 km, mentre il capoluogo campano restava collegato soltanto con Capua e Salerno attraverso appena 98 km in tutto di ferrovia (100 anni di storia delle FS). Analogamente, sempre nel 1860, mentre il Regno delle due Sicilie poteva contare su una rete stradale di 14.000 km, quella della sola Lombardia, quattro volte più piccola, ne vantava il doppio (Nicola Nisco, Il problema del Mezzogiorno – Il divario di partenza).

La seconda corrente di pensiero riscontrabile tra i meridionalisti, quelli considerati classici, sostiene che le condizioni di partenza non fossero molto dissimili tra Nord e Sud e che i ritardi nel Mezzogiorno si fossero accumulati nel tempo per effetto delle improvvide scelte politiche del potere centrale. Ad essa appartiene il gruppo più nutrito di studiosi, in capo ai quali è da collocare di diritto Francesco Saverio Nitti (1868-1953, Presidente del Consiglio dei Ministri e più volte Ministro). Prima del 1860, egli sosteneva, non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non avea quasi che l’agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L’Italia centrale, l’Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto (da Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013).

Tra i principali provvedimenti sfavorevoli al Sud si citano: l’eccessivo prelievo fiscale sui beni di prima necessità, a fronte di servizi di pessima qualità; le leggi protezionistiche varate nel decennio 1877-1887 a favore dell’industria del Nord, che hanno finito per danneggiare le esportazioni agricole meridionali; l’aver posto per molto tempo a carico dei Comuni, i più poveri sicuramente al Sud, le spese di gestione della Scuola primaria, così allargando la forbice già esistente nel campo dell’istruzione; le commesse belliche affidate all’industria pesante del Nord durante le due guerre mondiali, mentre i giovani contadini, impegnati al fronte, erano costretti a lasciare nell’incuria l’agricoltura, concentrata soprattutto al Sud; la politica autarchica del ventennio fascista, tutta incentrata sulla produzione del grano a scapito delle colture specializzate più redditizie, ciò che ha spinto la cerealicoltura nel Meridione fin sulle montagne più impervie, con pesanti riflessi negativi sull’assetto idrogeologico di cui continuiamo a pagare lo scotto. 

Conseguenze inevitabili di tali scelte sarebbero stati: il brigantaggio post-unitario; le rivolte popolari allo spirare del XIX secolo; l’emigrazione in massa di fine Ottocento e del secondo dopoguerra; l’affermazione delle forme di criminalità organizzata che ancora tengono sotto scacco intere regioni del Sud.

In questo filone si inserisce chi sostiene, come il giornalista Pino Aprile e l’economista Gianfranco Viesti, entrambi pugliesi, che sotto i Borbone si vivesse meglio che in Piemonte e che il Meridione fosse stato sistematicamente espropriato delle sue cospicue ricchezze per appianare le finanze dissestate del Nord ed avviarne il processo di industrializzazione: l’unificazione, in definitiva, vista come atto di conquista e di sfruttamento. Resta da spiegare, tuttavia, come si concili questa posizione con le rivolte antiborboniche degli anni ’20 e ‘40 del primo 800; le migliaia di oppositori politici rinchiusi nelle carceri, riparati all’estero o condannati a morte; l’entusiasmo che accompagna Garibaldi in Sicilia nelle vesti di liberatore. D’altra parte non mancano gli autori, anche contemporanei, che la pensano in modo diametralmente opposto, quale l’economista e storico dell’economia abruzzese Emanuele Felice, il quale non esita ad affermare che il Regno delle due Sicilie non solo non era il più avanzato Stato d’Italia all’epoca dell’unità […], ma era anzi con ogni probabilità il più arretrato, o tra i più arretrati d’Europa (da E. Galli della Loggia e A. Schiavone, op. c., p. 14).

La terza corrente di pensiero, minoritaria tra gli intellettuali ma diffusa in larghi strati popolari, tende ad attribuire lo stato di arretratezza del Sud al carattere congenito dei meridionali, consolidatosi in secoli di sottomissione a tanti popolisbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi” (Il Gattopardo, Tomasi di Lampedusa). Tale retaggio storico, anche per solo spirito di sopravvivenza, avrebbe progressivamente indotto alla corruzione, al disprezzo delle regole, all’assenza di senso civico, alla giustizia “fai da te”, al “familismo amorale” del politologo statunitense Edward Christie Banfield (1916-1999), sposato con l’italiana Laura Fasano. Questo è in fondo il retropensiero che anima la mentalità di molti settentrionali, convinti che c’è un’Italia attiva e virtuosa che produce e un’altra indolente che vive di rendita e di sussidi (chi non ricorda il motto “Roma ladrona”?).

Estremizzando molto quest’ultima tesi si giunge diritto all’inferiorità razziale dell’antropologo di scuola lombrosiana Alfredo Niceforo (1876-1960), nato per ironia della sorte a Castiglione di Sicilia.

Oltre che da singoli studiosi, i fenomeni che travagliano il Mezzogiorno sono da tempo indagati anche da istituti di ricerca come lo SVIMEZ (Ricerche sullo Sviluppo nel Mezzogiorno), una prestigiosa associazione privata senza scopo di lucro che opera a Roma dal 1946 e che dal 1974 pubblica ogni anno resoconti sugli aspetti economico-sociali del Meridione. 

Ebbene, dal rapporto di tale istituto del 30 novembre 2021 sono desumibili indicazioni assai interessanti, tra le quali mi piace ricordare le seguenti: 1) nell’ultimo ventennio risulta emigrato al Nord o all’estero un milione di meridionali, tra cui 300 mila laureati. Una perdita incalcolabile, com’è facile capire, considerato che a lasciare la terra d’origine sono in genere i soggetti più giovani e intraprendenti, i quali finiscono per mettere a frutto altrove le professionalità qui acquisite a costo di notevoli sforzi tecnico-finanziari; 2) la pubblica amministrazione, anche per i motivi di cui al punto precedente, registra al Sud un livello scolastico alquanto più basso rispetto al Centro-Nord: i laureati nei comuni di Bologna e Venezia, ad esempio, rappresentano il 32% degli impiegati, contro il 19% di Napoli e l’11% di Palermo; 3) nel settennato 2014-2020 l’Italia è riuscita a spendere appena il 43% dei fondi europei (terzultima tra i Paesi dell’Unione), facendo il Sud registrare i massimi ritardi in fase di realizzazione e le più forti criticità in termini di capacità progettuale; 4) i controlli effettuati dalla Guardia di Finanza nello stesso periodo hanno accertato che l’85% di tutte le frodi si è concentrato nel Mezzogiorno. 

Se questo è il quadro generale si può comprendere come non sia remoto il pericolo che il PNRR di cui in premessa, anziché colmare il divario Nord-Sud come auspicato, contribuisca ad allargarlo ulteriormente.

Una domanda sembra opportuna a conclusione di questa nota: indipendentemente dalle cause più o meno remote che hanno provocato la cesura di cui s’è detto, può il Meridione nel suo complesso, e in ispecie la sua classe dirigente intesa in senso lato, ritenersi esente da ogni responsabilità?