Nei boschi dei Monti Peloritani sta scritta una bella pagina di storia patria

Se chiedeste, come spesso ho fatto io in passato, a qualcuno degli escursionisti che decidono di trascorrere un giorno all’aria aperta sui “Colli Sarrizzo”, poco a ridosso di Messina, a quale epoca risalgono i boschi che sta ammirando tutt’intorno, vi sentereste quasi certamente rispondere che non ha la minima idea e che, in ogni caso, li ricorda sempre così. Se, poi, faceste osservare che a meno di 70-100 anni da oggi quelle montagne erano completamente brulle e dissestate (uno “sfasciume pendulo sul mare” avrebbe detto il celebre meridionalista Giustino Fortunato), sul viso del vostro interlocutore vedreste dipingersi un’espressione di sorpresa mista a incredulità. È perfino successo coi miei studenti di Scienze forestali portati da Palermo sui Peloritani in gita di istruzione. C’è voluta la forza della documentazione fotografica, per fortuna esistente, per fugare ogni dubbio.

 

Ma sarebbe errato pensare che quelle pregevoli formazioni forestali siano sorte dall’oggi al domani, per incanto, con un colpo di bacchetta magica. Se la loro pratica realizzazione, infatti, ha richiesto qualche decennio di lavoro e una cura assidua che dura tutt’ora, il loro concepimento si è concretizzato dopo un dibattito durato oltre tre secoli, al quale hanno partecipato organi di informazione, tecnici e scienziati d’ogni genere (agronomi, architetti, forestali, ingegneri, docenti e ricercatori universitari).

Sorte come chiacchiericcio di fondo già nel XVIII secolo, le richieste di adeguati interventi divennero sempre più forti finché, dopo l’immane disastro del 1855, forse la peggiore alluvione vissuta da Messina, divennero un alto grido di dolore levatosi da tutta le città.

Al centro delle discussioni c’erano argomenti che oggi sembrano ovvi e pacifici, ma che all’epoca evidentemente non lo erano:

1) come evitare che le acque dei torrenti invadessero periodicamente i centri abitati e le campagne, procurando ingenti danni all’economia e tanti morti in città?

2) come ridurre la quantità di materiale strappato alla terra dalle piogge battenti, responsabile in gran parte delle stesse esondazioni e dei danni conseguenti?

3) quali figure giuridiche chiamare in causa per progettare, dirigere, e soprattutto finanziare gli interventi ritenuti indispensabili?

A lungo si credette sufficiente costruire, lungo i corsi d’acqua, muri d’argine d’altezza adeguata al fine di evitare le esondazioni. Si suggerì anche di deviare i torrenti più pericolosi, così come avvenne, ad esempio, per i torrenti Trapani, Portalegni e Camaro-Zaera, scostati dal centro storico della città. Si ipotizzarono sbarramenti in terra battuta a monte degli abitati, poi disattesi, volti ad intercettare l’onda di piena, da far defluire o assorbire dal terreno gradatamente.

Ben presto, però, il tempo si incaricò di dimostrare che quelle soluzioni erano del tutto inadeguate, e comunque insufficienti; che il problema era da affrontare non in città o poco sopra, quando già era troppo tardi, ma nelle montagne retrostanti le quali, divenute spoglie e instabili a causa dei massicci disboscamenti pregressi, alimentavano l’apporto di masse notevoli d’acqua e di materiale solido che tutto travolgevano e seppellivano (Augusto Beguinot, 1924).

Già nel 1754, in occasione dell’ennesimo devastante nubifragio, il regno borbonico dell’epoca aveva emanato disposizioni, che pur adempiute non vennero, con cui si ordinava lo sbarbicamento dei vigneti e il taglio degli ulivi delle colline […], per tornare di nuovo a rimboschirle (Gaetano Oliva, 1980). Da quel momento decreti analoghi avrebbero visto la luce a getto continuo, ma con quali risultati si può vedere da quanto attestato in proposito dall’Ispettore dei Pubblici Lavori, delle Acque e delle Foreste di Messina dell’epoca: Queste norme tanto provvide hanno incontrato nella esecuzione ogni sorta di ostacoli ed opposizione per parte dei proprietari dei fondi da rinsaldarsi; il perché son derivati e derivano tutti i guasti di sopra descritti (Pietro Rapisardi Console, 1850).

Restando, dunque, le prescrizioni governative sostanzialmente inapplicate, tipo “grida manzoniane”, con regio decreto 1449/1873 (nel frattempo era sopraggiunta l’unità d’Italia) viene istituito a Messina un “Comitato forestale”, formato da Comune, Provincia e Corpo Forestale dello Stato, col compito di:

a) designare quei terreni, disboscati e dissodati, che per la loro specie e situazione influiscono a disordinare il corso delle acque ed a produrre danni;

b) provvedere ai rimboschimenti, fissando a tale scopo accordi con i Comuni, Corpi morali e privati, sia in ordine ai terreni a prescegliersi che al concorso nella spesa.

c) conferire all’Ispettore forestale, membro di diritto del Comitato, il compito di redigere il progetto e di esercitare la direzione dei lavori.

A conferma dell’assoluta eccezionalità della norma è sufficiente rammentare che provvedimenti analoghi, nel medesimo periodo, furono adottati in Italia soltanto per altre quattro province: Cuneo, Genova, Firenze e L’Aquila.

Grazie al decreto in parola e alla successiva legge 2011/1874 (la quale obbligava i Comuni ad imboschire od alienare i beni incolti di loro proprietà), sul finire del XIX secolo furono realizzati in provincia complessi boschivi che ancora oggi suscitano il nostro apprezzamento. Tra essi la “Foresta di Camaro”, ricadente pochi chilometri a monte della Città, oggi considerata il suo “polmone verde”, impiantata negli anni 1878-1895 su ettari 122 circa di terreni comunali, e la “Foresta Madonnuzza”, ubicata nello stesso bacino imbrifero, realizzata tra il 1890 e il 1895 su 62 ettari di terreni privati, in seguito espropriati (Guido Inferrera, 1901). Quest’ultima costituì il primo nucleo attorno al quale si formò il patrimonio dell’Azienda Foreste Demaniali dello Stato, poi passato in gestione alla Regione Siciliana.

Era fin troppo ovvio che interventi episodici e “a macchia di leopardo” come questi non potevano certo rappresentare la soluzione di un problema complesso come il dissesto idrogeologico diffuso che, per sua natura, coinvolge ampi territori, oltre ad ignorare confini amministrativi, titoli di proprietà e gli stessi limiti altitudinali introdotti dalla prima legge forestale unitaria del 1877. La quale imponeva sì alcune restrizioni sull’utilizzo dei terreni posti al di sopra della zona di vegetazione del castagno (700 metri circa s.l.m.), ma lasciava mano libera ai proprietari privati in tutto il territorio sottostante.

Bisognerà attendere il regio decreto 442 del 1912 per vedere la questione affrontata con visione unitaria e col pieno coinvolgimento dello Stato. Un’autentica rivoluzione culturale e programmatica che ruoterà attorno al concetto di sistemazione idraulico-forestale in senso integrale (rimboschimento delle pendici e contemporanea sistemazione dei torrenti), da applicare non più ad aree circoscritte, ma ai bacini montani integralmente considerati.

Occorsero un paio di due lustri perché i primi progetti trovassero pratica attuazione. Nel 1924 vennero rimboschiti i bacini dei torrenti San Leone e Gazzi, dal 1936 in poi quelli dei torrenti S. Michele, Annunziata e Tarantonio, quest’ultimo sul versante settentrionale. Negli anni ’50 gli interventi subirono una tale accelerazione che in soli 5 anni (1952-1956) furono interessati oltre 2.000 ettari di terreni ricadenti lungo tutta la dorsale dei Peloritani orientali, comuni di Messina, Villafranca Tirrena, Saponara e Rometta. Per l’occasione, vennero reclutati migliaia di operai, di cui molte donne; messe a dimora milioni di piantine di una cinquantina di specie; affidati al terreno tonnellate di semi fatti arrivare da varie parti d’Italia (pinoli, noci, ghiande e castagne); costruiti sulle frane chilometri di graticciate in legno e muretti di sostegno in pietrame a secco; erette briglie in muratura sulle testate dei torrenti in fase di scavo.

Un ruolo fondamentale in quest’opera colossale è stato svolto dall’Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana, nata dopo la costituzione della Sicilia a Statuto speciale, la quale Azienda, attraverso una serie interminabile di acquisti ed espropri, un imponente impegno finanziario e l’opera di diverse generazioni di Forestali, ha saputo dare vita, in questo lembo di territorio, a un complesso boschivo di quasi 5.000 ettari (50 kmq), rendendo possibile, dai 4-500 metri di quota in su, “stendere un manto verde”, fitto e continuo, lungo in linea d’aria oltre 40 chilometri (dal villaggio Castanea al villaggio Pezzolo).

Oltre agli indubbi pregi naturalistici, paesaggistici e culturali, questi boschi rivestono oggi importanza capitale sul piano della regolarizzazione idrica, assicurando al tempo stesso la trattenuta di una parte cospicua dell’acqua piovana e una forte riduzione del materiale di trasporto. Ciò non solo ha reso più rare e meno distruttive le alluvioni di un tempo, ma consentito, altresì, la graduale copertura dei corsi d’acqua che da monte a valle attraversano Messina e gli altri paesi costieri, trasformati negli attuali ariosi assi viari, di cui i più giovani non hanno forse piena consapevolezza.

Da quanto detto fin qui, è facile comprendere come ogni qualvolta brucia uno di questi boschi è come se andasse in fumo un’opera d’arte, non diversamente da una chiesa antica, un complesso architettonico di pregio, un sito archeologico irripetibile.

Note:

– Augusto Beguinot, docente universitario di Messina, così scrive dopo una gita di istruzione sui “colli”: Colpiscono andando sui Peloritani la quasi completa mancanza di boschi e […] lo stato avanzato di corrosione, dilavamento e franamento del soprassuolo in balia degli agenti atmosferici e meteorici che collaborano, con la ripidità del pendio, a mettere un pò alla volta a nudo la roccia privandola dei prodotti del suo sfacelo (Gazzetta di Messina e delle Calabrie, 1924).

– Guido Inferrera, amministratore del bosco comunale di Camaro, così scrive in proposito: La prova di tali benefici l’abbiamo avuta soprattutto nelle più recenti alluvioni, specialmente in quella del 29 ottobre 1901, poiché fra tutti i torrenti del Messinese, quello che non fu causa di danni, né diede motivo alcuno di allarme, fu il Camaro, il quale trasportò, senza però depositarle sull’alveo, quantità trascurabilissime di materiali alluvionali (G. I., Il Rimboschimento dei Peloritani, in relazione con la sistemazione dei torrenti del Messinese, p. 1. Estratto dalla Rassegna Tecnica, Tip. Ed. Nicotra, Messina 1091, n. 10-11).

– Gaetano Oliva, 1980, Annali della città di Messina, Continuazione dell’opera di C.D. Gallo per Gaetano Oliva, Libro I, pp. 34-35. Tip. Filomena, Ristampa Arnaldo Forni Editore, Messina.

– Pietro Rapisardi Console, Sui terreni in pendio, descrizione geognostica ed idrografica della provincia di Messina, Antonino d’Amico Arena, Messina 1850, p. 8.