Rinascimento messinese?

Ho creduto talvolta d’intravedere sintomi di miglioramento nella cultura, nella società e nella prassi politica della città dello Stretto, che da troppo tempo soggiace, invero, a una certa, diffusa atonia. Mi sono perciò proposto – da intellettuale democratico – di presentare, su questa libera testata, a scadenza settimanale, i protagonisti e gli eventi più significativi del rinnovamento in atto, senza obliterare ovviamente i non pochi fatti che purtroppo continuano a frenare lo sviluppo di questa bella e sventurata città.

La singolare fioritura, in questi ultimi tempi, a Messina, di associazioni culturali (quali che ne siano i limiti) nonché di poeti in lingua e in dialetto mi è parsa, per esempio, un efficace segno di un risveglio, dopo tanto sonno. E due sillogi poetiche, che ho avuto modo di leggere in questi giorni, mi sembrano particolarmente sintoniche a quello che potrebbe essere un piccolo, risicato Rinascimento messinese. Partiamo da qui.

Nino Principato poeta d’amore

Un uomo, un poeta è sempre legato ad un contesto (sociale, storico, politico, filosofico, letterario, religioso che sia) e alla vita di una comunità: per condividerne le tendenze, o magari per opporvisi, ma senza mai prescindere da quel cotesto e da quella comunità. Quanto dire che un uomo, un poeta riflette sempre lo spirito del suo tempo e del suo milieu culturale.

Queste ovvie notazioni mi capitava di fare mentre leggevo l’agile raccolta di poesie di Nino Principato, Grappoli d’amore, uscita nel 2010 presso Edizioni “Il Gabbiano” di Messina.

Appare subito chiaro a chi legge, invero, che il contesto culturale etc. cui il poeta Principato afferisce è quello post-relativistico del terzo millennio incipiente: egli non è affatto postmoderno o meglio rifiuta e contesta, di fatto, la cultura relativistica del postmoderno (secondo cui non ci sono verità, ma solo opinioni o interpretazioni, laddove la realtà stessa è costruzione dell’ideologia), che è stata egemone nella seconda metà del Novecento e che si è appunto esaurita, sotto l’urgenza della realtà oggettiva e del Nuovo Realismo di Maurizio Ferraris e di Umberto Eco, in Italia. Da questo punto di vista, la silloge di Principato appare estremamente attuale.

Si evidenzia parimenti, sin dalla prima lettura, che il milieu entro cui gravita l’attività poetica del messinese Nino Principato non è il preponderante coté conformistico, sentimentaleggiante e/o indifferente della borghesia della città dello Stretto, né quello – pure perspicuo a Messina – di certo diffuso individualismo che disdegna la leggibilità dei testi optando per moduli tanto astrusi quanto usurati. Si direbbe piuttosto che la poesia di Principato, imperniata com’è sulla limpidezza del lessico e dello stile («Come ci amammo nel meraviglioso amplesso / dei nostri corpi, delle nostre nudità»), rifletta gli orientamenti della parte innovativa, adulta, attiva, operativa (purtroppo minoritaria) della società messinese, capace di opporsi ai cliché politico-culturali dominanti, per affermare la verità (che c’è) e il valore della realtà (che non è un’opinione).

L’amore di cui Pricipato raccoglie i «grappoli», per offrirli al lettore, è l’amore coniugale, l’amore certo, stabile, forte per la moglie, la «ragazza Anna Maria», e per i figli (Roberto e Giorgia): un amore eticamente e cristianamente rivoluzionario (che presuppone il riconoscimento della parità, della libertà e della pari dignità della donna-moglie e dei figli, nonché la centralità della famiglia e degli affetti nella costruzione della propria personalità), certamente controcorrente nella tristitia dei tempi. Ma questo amore sottende anche, chiaramente, l’amore della vita, libera dai fumi delle ideologie e vissuta come dono da non sprecare: «Non voglio più giorni perduti / da rimpiangere per quando sarò vecchio / e sarà tardi per tornare indietro, / perché portiamo la morte dentro noi, / mentre viviamo» (p. 33).

Molto opportunamente Maria Froncillo Nicosia rileva nella bella introduzione, Elogio della fedeltà, che dalla silloge di Nino Principato «traspare un senso profondo di amore per la vita».

L’assimilazione della donna amata alla natura, onnipresente nella silloge, è assoluta in Quando la notte va via, dove il consueto registro realistico-simbolico che sottolinea, con ritmo perfettamente anaforico, in quattro strofe, l’avvento dell’aurora attraverso le mutazioni delle stelle, del mare, delle onde, dei gabbiani, campisce nella strofa finale in cui la «ragazza Anna Maria» ritirandosi «nell’ombra, in silenzio»,  si confonde con la luna: «il tuo corpo s’illumina / di brividi d’argento, / confondendoti, per un attimo, / col cerchio della luna che naviga sul mare, come un bianco veliero» (p. 29).

E, d’altra parte, almeno a partire da Petrarca, gli uomini, i poeti fanno, sempre, della loro donna l’emblema luminoso, il simbolo del loro rapporto con la vita.

Certo, Nino Principato, nel recuperare momenti, gesti, scene, colori, sentimenti della sua vita affettiva, non si piange addosso, né si rassegna al rimpianto del passato, ma guarda in faccia la realtà e ne valorizza le bellezze e i valori, senza scadere mai nella retorica o nella parenesi, in opposizione implicita alle bruttezze e ai disvalori (che purtroppo non mancano).

PIETRO PITRONE POETA GNOMICO

L’agile, asciutta silloge poetica di Pietro Pitrone, messinese di San Pier Niceto, pare fatta apposta per contraddire alcuni luoghi comuni imperanti sulla poesia, soprattutto nei vasti territori della provincia: quello, in primis, che vorrebbe relegare la poesia in vernacolo ai pochi temi familistico-sentimentali e quello della (presunta) autoreferenzialità dei testi poetici che, nel dispregio più o meno dissimulato della comunicazione (e della leggibilità), esalta confuse, solipsistiche, irrazionali (se non astruse), ultra liriche urgenze espressive.

Già il titolo della smilza raccolta, Pensieri e ricordi, il sopratitolo, Un opuscoletto per un pugno di amici, e il sottotitolo, Scritti in vernacolo per non dimenticare la lingua paesana, sono indicativi del progetto antilirico, colloquiale, antiretorico, operativo, del poeta sampietrese, il quale, già nella copertina, mette le mani avanti, per pudore, esplicitando che il suo è solo un «tentativo di scrivere in rima» e che i suoi scritti «Non hanno la pretesa di essere considerati poesie». Ma Pitrone riporta, subito dopo, sempre in copertina, il pensiero di un suo professore di filosofa, che la dice lunga sulla sua fiducia nel pensiero e, quindi, nella dimensione meditativa (filosofica) della poesia: «Chi pensa può sbagliare, ma chi non pensa ha già sbagliato».

Sono in realtà nutriti di pensiero le poesie di Pitrone: pensiero che nasce dalle cose, dalle esperienze della realtà (perlopiù dalla cultura contadina amorevolmente rievocata), e dalle vicende personali della sua vita di uomo vissuto a cavallo di due mondi (quello preindustriale dell’adolescenza e quello postmoderno, tecnologico della maturità) risolvendosi in termini gnomici, morali, con tonalità felicemente o amaramente ironiche e autoironiche, ma sempre in una prospettiva antiarcadica, che non cancella i tremendi costi umani (fatiche e dolori dei lavoratori dei campi, soprusi padronali, guerre … ) della cultura contadina.

Il campo tematico di Pensieri e ricordi è davvero vasto, laddove sono assai pregevoli le risoluzioni stilistiche adottate: se ne offre qui, di seguito, per brevi cenni, un rapido campionario; il lettore avrà così modo di conoscere, in un colpo d’occhio, aspetti salienti della poesia di Pietro Pitrone.

La fatica immane del contadino: «U zzu Peppi pattia pa campagna / Quannu u suli non spuntava da muntagna. / Travagghiava na iurnata lu mischinu / E pa casa purtava sulu duluri i schinu» (p. 6).

Il misterioso nesso di morte/vita e l’incombenza della morte: «Bon giornu … bona sira … bona notti! / Mancu nascisti … e già arriva a morti! / […] Allura pensici, omu distrattu […]», / (pp. 7-7bis).

La bellezza e la fugacità della giovinezza: «A gioventù ti salutò, ti dissi ciau: è cosa d’aieri: / Ti lassò cu na manu davanti e l’autra arreri!» (p. 8).

Le miserie della condizione umana: «Ognunu di noi l’avi qualchi piccatutzzu, / Semu omini e putemu sbagghiari, / Spiramu sulu mi ni pirduna u Signuruzzu» (p. 9 bis 3).

I guai della vecchiaia dello zzu Vanni a cui passò la valia (amorosa): «U barbanira u porta scrittu chiaru: “Quannu cala cala e non c’è cchiù riparu!”» (p. 13 bis)

Il rimpianto della fanciullezza e la preoccupazione per «sta bedda gioventù chi scrisci» nel mondo dominato dalla tecnica (che tuttavia ha fatto passi da gigante rispetto a quello dello zzu Peppi): «Però, cunchiudennu, spiramu tantu / Pi lu dumani di sti figghioli / E chi di oggi lu nostru scantu / Porti un futuru di rosi e di violi» (pp. 15 ss).

La denuncia, con forte empito creaturale, degli orrori della guerra: «Ma non chiangiti: pi chiddu chi fici / S’è meritata na bella midaglia!» / «Evviva o cazzu dissi lu patri / Mentri la matri muria di pena! Pulitici nfami, fitusi e ladri, / L’animu aviti comu na jena» (p. 20).

L’utilità perenne dei proverbi popolari: «U cani è cani, dicia ma nonna, / Ma s’è di razza a sira ritorna!» (p. 25).

L’irridente canzonatura popolare di un certo tipo di filosofo che, pensando e ripensando, finisce sotto una macchina: «Di costi e da cavigghia prima o dopo m’arripigghiu / ma almenu riuscii ad appurari chi esistu e / chi non dormu ma sugnu beddu sbigghiu» (p. 29).

E va detto che il recupero della bella parlata sampietrese (ripulita dalle forme più arcaiche e prossima al parlato di oggi) non solo conferisce ai versi di Pitrone lo stemma luminoso dell’autenticità, ma salva effettivamente il dialetto dalla dispersione nella babele contemporanea restituendogli tutta la sua limpida forza espressiva: «Sta scurannu, mali pi mia! / E dumani brisci? / Pi brisciri, brisci, dici ma zia: / S’avi a vidiri si brisci pi tia!» (p .6).

Lo stesso sguardo amorevole posato sulla realtà e la stessa gnome affettuosa scorrono nella sezione in lingua, I miei pensieri, dell’opuscoletto, dove le ansie e le gioie del nonno per il nipotino (Nipotino, La febbre) nonché le lodi della vita e di Dio creatore (Notte di San Silvestro) diventano poesia.

Giuseppe RANDO